DIEGO CONTI: "Credo che salvare delle persone sia prioritario rispetto a tutto"
Il cantautore e chitarrista Diego Conti.
Il cantautore e chitarrista Diego Conti.

DIEGO CONTI: “Credo che salvare delle persone sia prioritario rispetto a tutto”

Ciao Diego! È un piacere ospitarti sulle pagine di Music.it. È trascorso un mese esatto dall’uscita del tuo primo EP, “Evoluzione”. Come sta andando?

Sta andando molto bene. Le persone lo stanno ascoltando e questa è la cosa che mi rende più felice. Tengo molto a questo progetto. È il mio primo album, finalmente, uscito con Rusty Records e Richveel. Sono molto felice di aver lavorato a questo EP con Mark Twayne, che è il mio produttore. Insieme abbiamo composto e prodotto tutte le tracce, e anche altre tracce che usciranno prossimamente.

Un EP che prepara un album dunque.

Sì, assolutamente. Piano piano ci arriviamo. Di sicuro, prossimamente, uscirà un nuovo singolo, un inedito.

Ti va di raccontarmi come e quando è nato “Evoluzione” e come è successo che hai iniziato a a lavorare con Mark Twayne?

È nato tutto circa un anno fa. In realtà io già suonavo in giro con Mark. Sai, nel live, nei club, in giro per Roma. Dopo un po’ di tempo, tramite Rusty Records, la mia etichetta, Richveel e Taurus Publishing è nata la collaborazione. Niente, ci siamo trovati talmente bene che io e Mark abbiamo deciso di provare a registrare una canzone. E l’abbiamo fatto. Abbiamo registrato “3 Gradi”, la primissima canzone che abbiamo prodotto e che poi abbiamo portato al Festival di Sanremo. Da quel momento abbiamo fatto ascoltare ai discografici questo prodotto e sono andati fuori di testa. Ci hanno detto: «fate tutto l’EP perché questa musica ci piace parecchio».

Il così-da te-coniato crosspop. Sono curiosa di scoprirne le radici. Me ne parli?

Esatto, il crosspop. Da quel momento lì, con Mark abbiamo centrato questo genere che è anche una visione di vita. Da tempo avevo il desiderio di fare una musica nuova, il più originale possibile. Dico che parte da una visione di vita perché io credo che la contaminazione, la condivisione sia il futuro, non solo musicale. Parlo a livello umano, anche. Quindi abbiamo pensato di fare un genere che non fosse solo pop, rock o canzone d’autore o trap. Ma che fosse tutti questi generi insieme, mescolati secondo il nostro istinto, il nostro gusto. Tant’è che nell’EP c’è dal pop alla trap, il rock, addirittura anche la musica classica.
E quello che vorrei fare per sempre, è questo. Credo che la contaminazione sia il futuro. C’è un brano nell’EP che si chiama “Clandestino” ed è il manifesto di questa corrente di pensiero.

Da quanto mi dici, emerge una certa urgenza di voler dire la tua, oggi, coi tempi che corrono.

Abbiamo fatto uscire questo EP a ridosso di Sanremo Giovani e devo dirti che proprio in merito a “Clandestino”, io sono molto vicino a quanto ha detto Claudio Baglioni in conferenza stampa Rai, qualche giorno fa riguardo la questione dei profughi e degli immigrati. Lì non ha fatto niente altro che mettere in risalto una situazione che è sotto gli occhi di tutti, e ha avuto molto coraggio a farlo. In “Clandestino” cerco di fare la stessa cosa. Troppo spesso ci soffermiamo su clandestino come se fosse l’etichetta di una marca. Invece si tratta di persone. Io non faccio il politico, ma semplicemente credo che tutta l’umanità sia clandestina e che, al di là del colore della pelle, siamo tutti delle persone. Le leggi non dovrebbero valicare l’umanità. Di questo parlo: di valori umani. Credo che salvare delle persone sia prioritario rispetto a tutto.

Facciamo un passo indietro: esiste un momento in cui hai deciso che avresti voluto fare musica? Sei giovanissimo, ma hai sempre suonato e, Sanremo Giovani a parte, ti abbiamo già visto su un palco televisivo: quello di XFactor nel 2016. Insomma, una determinazione di cui vorrei conoscere la genesi.

Guarda, io ho avuto la grande fortuna di essere nato in una famiglia che ha sempre ascoltato musica. Di conseguenza, sin da piccolo sono stato esposto all’ascolto di vinili, cassette e concerti. Da Paul Simon ai Guns N’ Roses, gli AC/DC, Bob Dylan. Quando ero piccolo e assistevo a questi concerti dalle tribune dell’Olimpico, il palco mi sembrava lontanissimo. Crescendo, mi avvicinavo sempre di più, fino a che non arrivavo sotto il palco e sempre di più pensavo: «Cavolo, ma io voglio stare dall’altra parte, io voglio salirci sul palco». Ascoltare musica non mi bastava più, sentivo un desiderio crescente di farla io stesso. Credo che sia il mezzo di comunicazione più bello. C’è chi lo fa con la poesia, con la pittura, coi piccoli gesti quotidiani. Io a dieci anni ho toccato la chitarra e lì ho capito che la mia forma di espressione e comunicazione era la musica.

E rispetto al canto cosa mi puoi dire?

Io ho iniziato come chitarrista studiando chitarra, anche in conservatorio e suonando tutti i generi che mi passavano per la mente. Verso i 13 anni, ho scritto la prima canzone e in realtà non avevo mai studiato canto. Anche dopo ho preso giusto qualche lezione per non farmi male. Ma da quel momento in poi, ho capito che non era più soltanto suonare, ma era più una forma di espressione, appunto. Non ce la faccio a vivere una determinata cosa senza poi comunicarla agli altri. A me piace la comunicazione: che sia attraverso un film, una lettura, una canzone. Quello che cerco di fare con la mia musica è questo, non un fatto estetico, di fare una bella canzoncina, registrarla e suonarla. Io credo molto al concetto di musica che è condivisione. Mi sento molto fortunato ad avere questo, non so, dono? E spero di sfruttarlo al meglio.

Tu vieni dalla provincia. Mi domando quanto possa aver influito sulla tua sensibilità e formazione, il fatto che venissi da una realtà piccola.

Io sono di Patrica, un piccolo paese in provincia di Frosinone. E sì, ha inciso tantissimo sulla mia vena artistica questa cosa. Soprattutto quando ero più piccolo. Per me la chitarra e la musica erano un qualcosa per guardare oltre. Se mi affaccio sul balcone di casa, vedo delle montagne. E fin da piccolo ho sempre pensato: «voglio andare oltre queste montagne». Col passare degli anni, ho iniziato a suonare a Roma, fino arrivare a Milano, a Firenze. Però è qui, a casa, che nascono la maggior parte delle mie canzoni. Passo dei lunghi periodi a girare per l’Italia, ma poi quando ritorno qui ritrovo un po’ l’essenza, e scrivo le mie canzoni.

E com’è che nascono le tue canzoni?

Allora, non è mai uguale, la dinamica cambia di frequente. In genere, una volta che ho provato una sensazione, vissuto una determinata cosa o visto un qualcosa intorno a me, metà canzone mi arriva già nella testa, sia testo che musica. Il nucleo della canzone nasce davvero in maniera molto istantanea. Ultimamente poi, da quando lavoro anche con Mark, arrivo in studio e continuiamo a sviluppare un’idea. Ma la scintilla, non me lo spiego neanche io come sia possibile, arriva sempre di getto. Ad esempio, capita che Mark mi faccia sentire un beat elettronico o un giro di chitarra o due tre note di pianoforte. Da lì iniziamo a scrivere fino a che non facciamo la canzone. Non si sa mai, in verità. È una specie di miracolo, non posso darti una risposta che sia definitiva. Però sì, l’idea mi arriva subito.

Mi pare di capire che siano tutte autobiografiche.

Sì, tantissimo. Ad esempio, nell’EP “Evoluzione”, al di là di “3 Gradi” che conosciamo tutti, ci sono anche altri brani molto autobiografici. Come “Mal di testa” oppure “Evoluzione” stessa.

Mal di testa da cui hai partorito la canzone?

Mal di testa per la preoccupazione. Il pezzo dice «Maledetto mal di testa / Questo futuro che mi strozza». C’è la paura del futuro, la voglia di fare, raggiungere i propri sogni e tutto lo stress che noi giovani viviamo. Questa società che corre e tutti che vogliono arrivare. Tutti abbiamo questo desiderio di “farcela”. Che poi, chi lo sa cosa sia davvero il senso di questa parola? È un discorso molto ampio.

A proposito di autobiografia, andiamo a Sanremo Giovani, dove appunto hai presentato una canzone che racconta una tua intimissima esperienza.

Come ti dicevo, “3 Gradi” è stata la prima canzone che abbiamo registrato. Avevamo anche altri pezzi più canonici, che avrebbero strizzato ancora di più l’occhio a quello che diciamo è il gusto della canzone più classica sanremese. Però, avendo dato vita a questo nuovo genere, abbiamo pensato di rischiarcela. Questo brano, se vuoi, sia a livello musicale, ma anche tematico, è qualche cosa di diverso. Non sta a me dire se è nuovo o meno, ma di sicuro è diverso. Il fatto che sia nata un anno fa e proprio a Sanremo, durante la settimana del Festival, è stata una magia che non so spiegarmi.

Raccontamela senza spiegarmela.

Ho conosciuto questa ragazza stupenda che ho incontrato in quella settimana perché io ero là per suonare, per fare promozione con la mia musica e suonare in giro. Inoltre, era il secondo anno in cui avevo collaborato a un brano di Clementino, dopo “Quando sono lontano”, “Vulcano”, e poi ho lavorato a “Ragazzi Fuori”, dove ho suonato la chitarra collaborando con Shablo. E insomma, ho avuto un colpo di fulmine. Sai di quelli micidiali, che non si riescono a spiegare? Eravamo per strada e presi da questa passione non abbiamo resistito. Il giorno dopo avevo una febbre che stavo per morire perché là c’erano davvero 3 gradi! E così, il giorno dopo ho buttato giù questa canzone, l’ho scritta e mesi dopo registrata.

Avresti mai pensato che sarebbe arrivata sul palco di Sanremo Giovani?

No, mai! Finché non ci siamo ritrovati a decidere quale pezzo presentare. Una volta salito su quel palco, ho pensato «Accidenti, sta roba è micidiale!». È stata la cosa più vera che abbia mai fatto.

Perché sei andato a Sanremo?

Sanremo è il tempio della musica italiana. Per una persona che scrive e canta musica come, è tipo il coronamento di un sogno arrivare su quel palco. Chiaro che al di là di Sanremo avremmo fatto uscire l’EP. Però, visto che il caso ha voluto che proprio a ridosso delle iscrizioni di Sanremo avessimo già registrato le canzoni, ci è sembrato molto naturale presentare una canzone. Finché non abbiamo superato le prime selezioni, l’audizione con Claudio Baglioni, arrivando sul palco. Poi, tutti i miei idoli hanno calcato tutti quel palco: Vasco Rossi, Jovanotti, Zucchero. È stata una grande soddisfazione.

Mi fa piacere per te. Visto che li hai nominati tu, al di là dei chitarristi che ti hanno avvicinato allo strumento, una volta che hai preso la tua strada, chi l’ha illuminata?

Io sono davvero molto onnivoro per quanto riguarda la musica. A parte tutto il rock americano dei ’70, dai The Rolling Stones a Joe Cocker, l’ascolto tutta, anche la classica. Naturalmente, tutto il cantautorato italiano: da Lucio Battisti a Jovanotti, Adriano Celentano, Rino Gaetano e via dicendo. Ultimamente, mi sta appassionando molto anche la trap americana, come Post Malone, alias Austin Richard Post. Penso che sia un grandissimo artista. È anche fonte di ispirazione per le cose che sto facendo. Il rock è stato il mio primo grande amore, ma amo conoscere tutto. Non so, anche la musica cubana, brasiliana, indiana. Ascolto davvero di tutto. Il mio idolo, ora come ora è la musica.

Ora che hai nominato la trap, mi torna in mente il rap. Tu hai avuto la possibilità di aprire un concerto per il tour di Tormento, “Dentro e Fuori Live Tour” nel 2015. Che rapporto hai con la musica rap?

Nel mio percorso, l’incontro col rap e con l’hip hop ha avuto una grande importanza. Proprio da quella apertura a Tormento ho conosciuto Shablo e Giovanni Valle di Taurus Publishing. Da lì, mi sono ritrovato a registrare le chitarre per il pezzo sanremese di Clementino e a firmare la musica di un pezzo che si trova in “Vulcano”, il suo ultimo disco. Il pezzo è “Deserto”. È proprio Giovanni Valle che lavora su questo mio progetto musicale. Tra l’altro, questo mio crosspop si fa molto alla trap. Sotto alle canzoni ci sono molte percussioni trap, e quindi di sicuro c’è l’hip hop come attitudine. È da qualche anno che si ripresenta nella mia vita e quindi doveva andarci a finire nelle mie canzoni.

Passo a una domanda di rito che in questa occasione si fa molto interessante, visto il tuo amore per la musica sorto ascoltando dei live, chi deve stare, oggi, sul palcoscenico per farti andare ad assistere al concerto e rimanere sotto al palco, felice?

Potrei dirti qualche nome italiano perché ne avrei diversi. Però, reduce dal concerto l’estate scorsa, ogni volta resto fulminato dall’impatto che ancora oggi mi danno i Guns N’ Roses. Ho iniziato facendo la loro musica e rivederli, a distanza di anni, con quell’energia e grinta mi fa uscire fuori di matto. Non posso non dirti loro, sono il mio primo amore. E il primo amore non si scorda mai!

Capisco, eccome se capisco. Volendo insistere sul fatto che hai amato la dimensione live da subito, ti chiedo: la preferisci rispetto a quella in studio?

Sono due cose diverse, due magie diverse. In studio avviene quel momento di trance per cui l’ispirazione ti fa fare delle cose che ti emozionano talmente tanto che non te le sai spiegare, però accadono. Poi, la musica la scrivo per portarla alle persone. Scrivo ma non so bene da dove arrivino le mie canzoni. Lo faccio per comunicare qualcosa che ho da dire alle persone o per dire qualcosa che le persone hanno da dire a me. Molte volte scrivo anche di cose che vedo in giro ed è come se fosse il mondo a parlarmi. Spesso è proprio così, perché se io incontro una bella ragazza in realtà è il mondo che mi sta parlando. in “Evoluzione 3.0” io narro e quindi racconto qualcosa che mi viene raccontato.

La contaminazione, appunto. Lo scambio, no?

Esatto, è lo scambio. Poi, io credo che – soprattutto nel mondo in cui viviamo oggi, tutto molto veloce, smart, tecnologico – il live sia uno di quei pochi riti umani che ci riporta davvero alla verità delle cose. Il senso dell’arte è questo, alla fine. Credo che faccia luce su quelle che sono le cose vere. Quando sei a un concerto di musica o davanti a un film, non so, io credo che il cellulare si potrebbe pure accantonare per quel momento. L’arte ti rapisce e ti porta dove vuole lei, quindi io credo che il live sia una di quelle cose che, davvero, non morirà mai.

Rispetto a tutto quello che mi hai detto adesso, mi viene da pensare alla tua prima esperienza televisiva con X Factor. Mi domando se rispetto alla verità delle cose che il live restituisce, il filtro della TV e del talent in generale non snaturi il nucleo dell’autenticità.

Io ritengo che per un ragazzo che fa musica il talent sia di sicuro una vetrina. È una delle opportunità che ha di farsi ascoltare, ma non è la sola opportunità. Soprattutto in un momento come quello di oggi, dove nella musica italiana c’è un grande fermento e gira un sacco di roba bella. Ci sono 4/5 artisti che stanno in giro da qualche anno e che fanno belle cose e soprattutto hanno riacceso nel pubblico la voglia di ascoltare le persone che vivono e scrivono le proprie canzoni. Lì, mi ritrovavo a cantare delle cover e quindi non facevo quello che in realtà, senza presunzione, sono nato per fare.

Scrivere e cantare le tue canzoni.

Esatto. Chiaramente è stata una grande esperienza perché mi ha fatto suonare su palchi enormi e davanti a milioni di persone. Ho tanti bei ricordi. Sono arrivato lì con una chitarra a cantare queste cover. La prima alle audizioni mi pare che fu “Magnolia” dei Negrita, un altro gruppo che mi piace parecchio, peraltro. Naturalmente, anche se non erano canzoni mie, io ci ho messo la mia verità. Dall’inizio alla fine del percorso ci ho messo me stesso, senza filtri. Per la mia esperienza, come tutte le cose che faccio, ci ho messo la verità, altrimenti non mi piacerebbe farle. Il mondo dei talent è molto spigoloso, la televisione amplifica tutto. Non hai potere decisionale sulle canzoni che ti assegnano, ma il gioco sta nel mettere la verità anche nell’esecuzione di canzoni che non canteresti mai nella tua vita.

Dunque, non ti sei mai pentito di aver partecipato a un talent?

Ma no. Guarda, pur essendo uscito alla prima puntata e aver indossato dei vestiti che assolutamente non mi rispecchiavano, sono stato molto felice di aver cantato, al ballottaggio, “Io vivrò” di Lucio Battisti. Per me Lucio Battisti è intoccabile e quando lo sento cantare in TV da altre persone, mi viene l’orticaria. Però ti devo dire che ricordo il momento esatto in cui davanti a me 3’000 persone si sono alzate applaudendo e gridando il mio nome. Evidentemente, avevano sentito che ci avevo messo il cuore. Cosa che ho fatto, perché sapevo che stavo andando a toccare una leggenda della musica italiana. Il cuore è arrivato e, al di là della gara, a me interessa quello.

Dei progetti futuri mi hai già parlato al principio di quest’intervista e devo dire che hai trovato un buon connubio con Mark Twayne. Andate veloci!

Sì! Tra l’altro, non vorrei dire una fesseria, ma credo che siamo stati i primi a tirare fuori un EP. Abbiamo anticipato tutti. Per me era importante perché avendo definito una visione delle cose, volevo che il pubblico avesse più di una sola canzone, più canzoni per capire chi sono.

Avremmo finito, ma non resisto dalla voglia di chiederti se la ragazza di “3 Gradi” è la tua attuale ragazza!

Questa cosa non la dirò mai. Resterà un mistero! Soprattutto, lì ho catturato davvero l’essenza di un momento che a pensarci, con tutti i pregiudizi che ci sono oggi, dove il pudore si scandalizza per cose molto più frivole, è stata di sentimento. Pure se parlo di un rapporto sessuale consumato per strada!

Ci accontenteremo dell’immaginazione. Del resto, che si scrive a fare se no? Prima di lasciarti andare, però, ti lascio uno spazio per salutare i lettori di Music.it! In bocca al lupo e a presto!

Un saluto a tutti i lettori di Music.it! Mi raccomando: fate scoppiare i termometri!