Cominciamo dal personale. Raccontaci un aneddoto tratto dalle vicende di un cantautore di periferia. Possibilmente qualcosa che non hai mai raccontato a nessuno.
Un aneddoto che ha a che fare con una canzone del disco ce l’ho su “Marcella”, una ragazza dai modi burberi che vive di accattonaggio.
Un giorno le chiesi: «Marce’, l’hai mai visto il film “l’Accattone”?».
«Certo, me so’ pure messa a piagne!»
«”Mamma Roma” invece, lo hai visto?»
-«Sì, è la storia de una che conosco bene».
Allora incalzai: «Quindi ti piace Pasolini?».
«E chi è?».
Quando è avvenuto il tuo primo incontro con la musica?
Da piccolissimo, grazie a mio nonno paterno che amava e costruiva strumenti musicali.
Casa sua e di nonna era piena di chitarre artigianali attaccate al muro, un pianoforte in salone, i vinili, le cassette di Rino Gaetano, Lucio Dalla, Fabrizio De André e tanti altri cantautori di quel tempo. Fu facile capire quello che mi piaceva.
Se ti dico la parola “Maestro”, a quali volti della musica pensi?
Un nome in particolare è difficile farlo. Ce sono molti
Torniamo alle tue origini. Hai mai composto canzoni di altri generi musicali?
Compongo sempre brani di generi diversi, usando a volte l’italiano, a volte il dialetto. In “Suonato“, per esempio, ci sono pezzi con mondi musicali diversi tra loro ma che fanno parte dello stesso universo. Durante la fase compositiva lascio che sia l’ispirazione a guidarmi.
Perché pensi che il cantautorato sia la forma musicale che meglio si adatta alle tue esigenze espressive?
Perché suonare, cantare e scrivere, sono tre cose che mi fanno sentire vivo più di altre.
Immagino che la musica sia sempre stata la tua prima scelta. Tuttavia è un percorso lungo e incidentato quello del cantautore, o del musicista in generale. Hai mai pensato di appendere la chitarra al chiodo?
Sì, ci sono stati momenti in cui l’ho pensato, ma sono durati il tempo di una sbronza.
Sono passati 7 anni dall’uscita di “Panni e scale”, il tuo primo album autoprodotto. Quanto è cambiato musicalmente Emilio Stella da allora?
Sicuramente c’è stata una crescita, dovuta anche al fatto di suonare con musicisti più forti di me. Ho fatto esperienza, appreso qua e là. Ho imparato a ragionare meglio sugli arrangiamenti. Il cuore e l’anima che ci ho messo sono gli stessi.
“Suonato” è un aggettivo che sta per diversi significati: è il participio passato di suonare, è un sinonimo di matto e di menato. Oltre che ad identificare il tuo album, in che senso può descriverlo?
“Suonato” ha infatti entrambi i significati. È stato suonato da una band senza l’ausilio di artifici e, inoltre, fa riferimento alla metafora pugilistica di chi risente dei colpi presi nella carriera. Rispecchia me oltre al contenuto dell’album.
Qual è la traccia di “Suonato” che preferisci? E quale quella di cui vai più fiero?
Sarò banale. Non ce n’è una in particolare ma davvero è proprio così. Vado fiero di ogni traccia.
Hai già condiviso il palco con Simone Cristicchi, Mannarino, Piotta e Il Muro del Canto. Con quale altro autore vorresti esibirti?
Punto in alto? Dico Francesco De Gregori. Ma mi vengono in mente anche altri, come Brunori Sas, Caparezza, Daniele Silvestri. Ce ne sarebbero davvero tanti.
I riconoscimenti sono arrivati fin da subito. Mi sto riferendo a “Festa”, il brano con cui sei stato inserito nell’album “Club Tenco”. Un po’ di introspezione: secondo te cosa piace delle tue canzoni?
Sì, i riconoscimenti fanno sempre piacere. Ma il riconoscimento più grande è proprio quando la gente si diverte o si emoziona. Quello che avverto essere apprezzato di più è che quando canto non mi risparmio mai e che racconto cose vere.
Il legame tra poesia e musica è stato storicamente interrotto per secoli. Oggi lo stiamo riscoprendo un po’ alla volta. La tua collaborazione con Er Pinto sembra andare in questa direzione. Come è stato far dialogare i due mondi? Raccontaci la tua esperienza.
Le poesie hanno di per sé una loro musicalità. Nel caso della collaborazione con Er Pinto è stato facile. Ho letto quei versi e ci ho sentito un’atmosfera. Ho solo estratto la musica che mi trasmettevano le sue parole. (Er Pinto è un poeta anonimo. Inizia il suo percorso artistico entrando a far parte del collettivo “Poeti der Trullo” nel 2010. Scrive i suoi testi online e sotto forma di “Street Poetry” sui muri della città. ndR).
“Alle case popolari”, brano del tuo primo album, è un quadro fedele delle borgate romane. Portare a teatro un simile scenario è un progetto ambizioso. Come è nato?
Dall’incontro con Simone Cristicchi, che ha apprezzato il brano “Alle case popolari”. È stato lui a darmi l’input iniziale. In un secondo momento ho cominciato a scrivere di certi personaggi, facilitato dal contatto diretto con gli stessi, riportando su un foglio la verità. Lo sto per ultimare.
Altri sogni nel cassetto che ti piacerebbe realizzare?
Il sogno, oltre a quello di poter condividere la mia musica con più persone possibile, è proprio quello di riuscire a portare in scena questo spettacolo ambientato alle case popolari, coinvolgendo qualcuno che possa aiutarmi a realizzarlo. Penso ad Elio Germano o a Valerio Mastandrea, due attori che adoro e che conoscono il linguaggio di certi contesti.
Le ultime righe sono tutte tue. Licenza poetica totale.
Il nuovo disco è appena uscito ma sto già lavorando al prossimo.