Diamo il benvenuto a Faia sulle nostre pagine. Prima di procedere con l’intervista, come tutti gli artisti che passano da qui, devi superare la nostra prova del fuoco. Raccontaci un aneddoto particolarmente imbarazzante che ti ha coinvolto sul palco!
Ne avrei diversi da raccontare! Tra i più recenti, ce n’è uno che ha creato una bellissima atmosfera. Durante un mio concerto, è saltata all’improvviso e per ben due volte la corrente: tutti al buio, e allora gli spettatori hanno acceso le torce dei cellulari e lo spettacolo dal palco è stato molto carino. Poi ne ho anche uno “splatter”: tempo fa, mentre stavo suonando, un tizio ha cercato di scavalcare una ringhiera correndo. Immaginate il risultato: faccia a terra, col naso. Splash. Non oso immaginare il dolore!
Già che siamo in vena, raccontami anche qualcosa che non sia avvenuto sul tuo palco.
Un aneddoto che non riguarda la dimensione del live e che mi ha inizialmente causato un bello spavento! Qualche anno fa ero in metro per andare ad un concerto (non mio!) ed ho notato un gruppo di persone che mi scrutava: al momento di scendere, i ragazzi mi seguono e mi circondano. Ero pronto al peggio, poi uno esclama: “ma tu sei FAIA! Noi ti seguiamo, complimenti!” ed io: “bene ragazzi, vi ringrazio moltissimo, ma la prossima volta cercate di non farmi prendere un infarto!”.
Ora che abbiamo rotto il ghiaccio, iniziamo a parlare di musica. Come nasce in Faia questa passione? Ricordi il momento esatto in cui hai deciso che avresti intrapreso questa strada?
Non potrei ricordare il momento, semplicemente perché suono da che ho memoria. Ho iniziato col pianoforte, musica classica, per poi passare al rock nell’adolescenza. Verso i 12-13 anni ho realizzato definitivamente che la musica sarebbe stata la mia strada, non da semplice esecutore ma come creativo: dar vita alla mia musica, lasciare un segno di me nel mondo. Che poi passasse inosservata o meno non era la priorità. Per me l’atto creativo è fondante: è l’essenza dell’essere umano, uno sfogo imprescindibile.
Raccontami quali sono i tuoi ascolti. Con quale musica sei cresciuto nelle cuffie?
I miei più grandi riferimenti italiani sono Litfiba, CCCP-CSI, Bluvertigo, Subsonica. Anche i Verdena. Ma ho iniziato ascoltando i grandi classici, dai Nomadi a Francesco Guccini, Luciano Ligabue, Lucio Battisti, Fabrizio De André, Franco Battiato, Zucchero e mille altri. A livello internazionale, tra i primi ascolti sicuramente i Queen, per i quali ho tutt’ora una sorta di timore reverenziale. Poi Led Zeppelin, The Doors, Dire Straits, Deep Purple. Tra i miei miti: Nirvana, Pearl Jam, David Bowie, un po’ tutta la New Wave partendo dai The Cure, Billy Idol, Joy Division etc. Anche la scena “dark” mi ha sempre affascinato: i primi album degli HIM mi piacciono tanto e ho seguito con interesse la scena scandinava. Adoro i Placebo. Poi l’elettronica, mia stella polare insieme al rock e fondamentale per me che nasco tastierista: su tutti, i Depeche Mode, dei veri maestri. Ovviamente The Chemical Brothers, The Prodigy, New Order etc. E non posso non menzionare i Linkin Park. Può bastare?!
Direi di sì! Ho quasi paura chiederti quale ascolti invece oggi con maggior piacere?
Sono molto legato agli ascolti classici sopracitati, ma oggi seguo con particolare interesse gli Editors. Sono forti, gran sound, gran voce. Poi i Muse, anche se gli ultimi lavori non li ho seguiti tanto. In Italia ascolto un po’ tutto quel sottobosco musicale che sta emergendo in questo periodo, e vado anche di playlist alla scoperta di cose originali. Ci sono tantissimi nuovi artisti. A volte però, con un’offerta così ampia, ci si perde ed è difficile focalizzarsi su qualcosa in particolare.
Abbiamo avuto tutti nell’Mp3 una cartella nascosta dove tenevamo delle canzoni solo per noi, che ci vergognavamo a condividere. Quali erano le tue?
Da ragazzino, gli 883! Ma non me ne vergogno affatto, anzi…canzoni come “Con un deca” mi piacciono ancora oggi!
Ok, finalmente è uscito il tuo singolo “Il cimitero degli Elefanti”, raccontalo a chiunque non lo abbia ancora sentito.
È un brano che sento molto mio. Intimo, direi. Dopo un anno e mezzo dall’uscita del mio primo album, “Vuoto Sincronizzato”, questa canzone racchiude uno sfogo, la descrizione di alcune sensazioni ed anche del mio io più profondo e vissuto. Mi metto a nudo, cosa che non faccio spesso nelle canzoni, elencando quello che ho perso nella vita: dalla fede all’illusione, fino al desiderio di trovare un senso a tutto, anche se sono un tipo in costante ricerca del senso delle cose.
A proposito di te stesso in relazione al brano che diresti?
Sono curioso e ho bisogno di scoprire, dagli abissi dell’anima all’infinità dell’universo. Divoro conoscenza. La “perdita” di alcune cose, comunque, credo sia comune a tutta una generazione, quindi posso definire “Il cimitero degli elefanti” come un racconto non soltanto mio. È anche vero poi che, in tutto questo pessimismo, riesco pur sempre a trovare un barlume di speranza nell’empatia e negli affetti, in quell’emozione che fa esplodere il cuore come una canzone. Nella musica, ovviamente, mio grande e imprescindibile rifugio.
Una metafora per rappresentare uno scrigno di emozioni, ricordi e stati d’animo. Perché è importante non dimenticarle e tenerle sempre presenti?
Per non perdersi in questo mare immenso, in questa miriade di input che rischiano di farci impazzire. Uno scoglio, o forse meglio dire una zattera. Cerchiamo di seguire tutti una stella polare.
Come traduci le tue emozioni in musica e, quali sono quelle che hai provato scrivendo questo singolo?
Sono un fiume in piena. La musica mi arriva così, quasi senza preavviso, già fatta e finita. Nel mio cervello si materializzano già gli arrangiamenti! È una cosa che non so spiegare. A volte faccio questo esempio: la mia musica esiste già in una sorta di Iperuranio, io non sono altro che un Demiurgo che dà forma a queste idee già presenti in qualche luogo “altro”. Eppure sono una persona molto legata alla scienza, alla contingenza, ma questa cosa davvero non riesco a spiegarla con altre parole. Sicuramente influisce anche il fatto che conosco la musica, le armonie, e questo rende tutto un po’ più semplice.
Siamo in pieno cambiamento generazionale (ma in fondo lo siamo sempre). Come stai vivendo l’evoluzione della musica nei generi attuali, e come cerchi di sopravvivere?
Più che evoluzione, direi rivoluzione. Almeno nelle modalità di fruizione, e questo si ripercuote inevitabilmente sui gusti delle persone e su ciò che gli artisti propongono. Personalmente, rimango me stesso: mi aggiorno, cerco qualcosa di nuovo a livello di sound, ma sempre che sia in piena linea coi miei gusti. Sono insofferente alle imposizioni. A volte mi è stato detto: dovresti fare qualcosa più itpop, assomigliare più a quello o quell’altro. Niente da fare, vorrei somigliare solo a me stesso!
Dopo questo singolo ci sarà un album? Cosa possiamo o dobbiamo aspettarci dagli altri brani? Fai uno spoiler, se puoi, per i nostri lettori!
Sto lavorando ai nuovi pezzi. Oltre al singolo già uscito, ne ho già altri 8 preprodotti (sono anche producer, me la canto e me la suono!). Ma questo è un periodo in cui scrivo a raffica e ne sto preproducendo molti altri. La selezione sarà ardua, vorrei fare un disco di massimo 9-10 pezzi (e sono già tanti). Posso però anticipare che il sound sarà molto elettronico e i testi mediamente più intimi e personali rispetto all’album precedente, anche se non rinuncerò a parlare di tematiche generali e sociali. Ci sono cose che toccano tutti noi e mi va di esternarle, come sempre, a modo mio.
È stato un piacere scambiare qualche parola con te, ti lascio quindi qualche riga bianca per aggiungere ciò che vuoi a questa intervista. A presto!
Grazie a voi per le belle domande e per avermi dato modo di parlare della mia musica. Vi lascio con la frase che ha accompagnato il mio primo album: “in questo grande Vuoto siamo tutti Sincronizzati”.