GIACOMO SETTE: “La sintonia in scena va oltre l'amicizia, è una forma d’amore”
Il regista Giacomo Sette di Anonima Sette.
Il regista Giacomo Sette di Anonima Sette.

GIACOMO SETTE: “La sintonia in scena va oltre l’amicizia, è una forma d’amore”

Diamo il benvenuto a Giacomo Sette sulle pagine di Music.it. All’inizio del mese sei stato in scena a Carrozzerie n.o.t. con “Il Pianeta”, in apertura di stagione. Ma parlaci di quello che è venuto prima.

Anonima Sette nasce nel 2016 con Azzura Lochi, Simone Caporossi e Giulio Clerici. Siamo partiti da “B-Ride”, con cui abbiamo vinto il premio della giuria critica di Direction Under 30 al Teatro Sociale Gualtieri, nel 2017. “B-Ride” era nato da un’idea dell’amica Martina Giusti, ispirata da un episodio da “Storie Pazzesche”, film di Damiàn Szifron prodotto da Pedro Almodovar. L’episodio parla di un tradimento consumato alla festa nuziale dallo sposo, pretesto da cui parte lo spettacolo che poi però prende autonomia nel personaggio della sposa. Dopo c’è stato “Il Peccato”, ispirato invece a “Jesus Camp”, un documentario del 2008 sui campi estivi per giovani predicatori evangelici. “Il Peccato” è un monologo ispirato alla figura della predicatrice Katie Fisher, figura estremista e destrorsa. Essendo raccontato in prima persona, il gioco è quello di rappresentare la narrazione come se, nella sua assurdità, fosse l’unica verità possibile. E poi è venuto “Il Pianeta”.

Se dovessi tendere un filo rosso fra questi tre lavori, che nome avrebbe?

Il filo rosso principale ora mi sembra il tema del senso di colpa, un motore psicologico e culturale che ci immobilizza, vieta di trasformarci per il timore di urtare qualcosa o qualcuno. Sono incuriosito dall’influenza che la presenza del peccato originale, che viene dalla nostra cultura cattolica, ha sulla vita privata ed artistica. Pensando al teatro, vedo il rischio di rimanere confinati nelle realtà locali o nell’off theatre proprio per il senso di colpa innanzi alla trasformazione che la competitività a livello nazionale imporrebbe. È una tentazione romantica, ma ti impedisce di entrare in comunicazione. In questo senso si dovrebbe invece riconoscere un percorso di crescita artistica che ad un certo punto esige binari diversi per parlare ad un pubblico più ampio. Perché restando lì si rischia di morire, o non dire più nulla.

Dove si colloca il tuo teatro rispetto a questo rischio?

Io mi sento come in mezzo ad un fiume, e non so se riuscirò a passare dall’altro lato, o se la corrente mi farà tornare a riva per costruire dove già sono stato. “Il Pianeta” è proprio questo stare in mezzo: ci ha permesso di forzare il nostro linguaggio per capire ciò che manca e ciò che c’è per guadare o meno il fiume. Aprire la stagione in uno spazio importante come Carrozzerie n.o.t. ci ha dato un’opportunità di confronto con un pubblico ed una critica preparati, meno benevoli, tutti da conquistare. Siamo andati in scena con uno spettacolo che è frutto di quella condizione di passaggio, della consapevolezza di essere professionisti ma, soprattutto, dei creativi in formazione per cui ogni riconoscimento è un punto di partenza, e la messinscena una ricerca aperta.

Da dove è nata l’idea de “Il Pianeta”? Perché portare “Solaris” a teatro?

Nel 2011 ho visto il remake di “Solaris” fatto da Steven Soderbergh, su suggerimento di un amico appassionato di fantascienza come me. Da lì ho recuperato la versione di Tarkovskij e il libro di Stanisław Lem. Mi ha colpito il dramma della perdita di umanità dei personaggi. L’idea è che il Pianeta, quest’entità che manda ai protagonisti fantasmi del loro passato, sia più umano di loro. Harey, fantasma del protagonista Kris Kelvin, la moglie morta suicida anni prima, è più umana di lui. Kris è messo di fronte al conflitto tra il suo ruolo di scienziato e la seconda possibilità di vivere una relazione d’amore che il Pianeta gli regala. Ma la sua prima reazione è di uccidere Harey, mettendola su una navicella che viene sparata nello spazio. Ma poi Harey ritorna, come il senso di colpa di Kris. E così in lui comincia ad avvenire una trasformazione.

Quale linea creativa ti ha portato a maturare lo spettacolo come contenitore autonomo rispetto al romanzo?

La scrittura per esempio. Mi piace lavorare su un linguaggio che ricorda i film d’azione americani, botta e risposta veloci, ben poco filosofici diversamente dal libro. Inoltre i personaggi sono calati molto nel qui ed ora. La storia può portarti “lassù”, ma la realtà umana dei personaggi ti tiene quaggiù. Un elemento importante su cui abbiamo lavorato è il silenzio: un silenzio denso che permette al pubblico di ritrovarsi e chiedersi conto dei propri sentimenti. Poi ci sono le musiche originali di Luca Theos Boari Ortolani. Luca scrive a volte senza seguire le prove, ma alla fine il risultato calza a pennello. Questa è la prova della sintonia che siamo riusciti a creare durante la preparazione con Simone Caporossi (Kris), Benedetta Rustici (Harey) e Ivano Conte (Snaut). Una sintonia che vorremmo arrivasse fino agli spettatori come qualcosa che va al di là dell’amicizia, una forma d’amore.