“Trent’anni di felicità in comodato d’uso” potrebbe essere il titolo della loro pièce, appaiato a quello del classico. In una prossimità di parole che interroga il potere analogico dei confini spaziali e temporali. Il confinare segna il destino della coppia. La loro ex-casa colonica, affidatagli in comodato d’uso dal Comune di Bologna, fronteggiava il sedime ove oggi sorge F.I.Co., Fabbrica Italiana Contadina. Il parco tematico sul cibo mira a fare della filiera produttiva una cultura, ma anche uno spettacolo. Un’incessante vetrina a favor di turisti e consumatori. Anche la fattoria spontanea dei Bianchi era uno spazio di cultura e colture, ma senza spettacolarizzazioni. Un’arca di Noè, o una comune per la folta, bizzarra fauna animale e umana. La lista degli ospiti, puntualmente ricordata in scena, ha sapore surrealista: dal babbuino al boa constrictor, dal lupo al fenec, dagli ex-detenuti alla famiglia rom.
“Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” dei Kepler-452 avvicina il capolavoro cechoviano attraverso un’analogia politica.
Un miracolo discreto che ha avuto fine con uno dei tanti sgomberi che negli ultimi dieci anni hanno allineato l’unicità bolognese al piatto panorama neo-capitalista delle amministrazioni comunali. Infine l’orto-didattico trionfa e cancella l’orto-vita: la spettacolarizzazione rinnega il suo stesso sostrato, come il feticcio soppianta l’oggetto. I Kepler-452 incontrano i Bianchi proprio mentre riflettono su una messinscena de “Il Giardino dei ciliegi”, e subito captano la consistenza dell’analogia. La casa-fattoria bolognese è, come il giardino dei ciliegi, uno spazio sottratto al vissuto emozionale in nome della logica calcolante del capitale. Sono entrambi spazi lirici, unici nel loro aspetto inafferrabile, stra-ordinario. Sono immagini non riproducibili. La descrizione ex-post riferisce l’emozione soggettiva di chi ne ha nostalgia, non il rilievo oggettivo. Essi si possono configurare solo per analogia, in absentia, non analiticamente. E questa è la potenza poetica e proiettiva dello spettacolo.
In nome di questa piega segreta Ljuba e Gaiev, i fratelli dell’opera di Cechov, dialogano con Annalisa e Giuliano. Ne vestono i panni entrando in scena avvolti in voluminose pellicce, simboli naïf del rigore dell’inverno russo, oppure dell’animalità indomabile ma pacifica che circondava Annalisa e Giuliano nel loro hortus violato. O ancora emblema di una moda fuori tempo di un tentativo di protezione da senza-tetto, di una povertà che si ammanta, per genialità trasfigurante, di objets trouvés. Segni visivi in linea con il polveroso accatastamento da rigattiere che fa la scenografia: uno spazio di cose sfrattate, pronte a declinare nell’ombra di una memoria già vecchia. “Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” è articolato secondo un processo additivo che giustappone con voluto disordine piani temporali, drammaturgici, simbolici, mediali. Lo stesso statuto dell’attore è frantumato lungo i tracciati individuali delle figure in scena.
“Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” è articolato con la somma di piani temporali, drammaturgici, simbolici, mediali.
Ludovico Guenzi, per esempio, è Lopachin, ma è soprattutto Lodo. Alcuni spettatori sono invitati sul palco per la scena della festa del terzo atto. La loro buffa estraneità porta all’effetto logico e voluto, a quell’atmosfera da festa malriuscita che il testo effettivamente suggerisce; ma è anche reale. Nicola Borghesi e Paola Aiello si danno il ruolo di mediatori fra il testo, la storia di Annalisa e Giuliano, la scena, il pubblico. Rammagliano con il piglio di raccoglitori l’energia atomica che promana dalle rotture sistematiche e sovraccumulate dei piani narrativi. Tuttavia la drammaturgia non sempre sostiene la debordante complessità evocata. Così come ritmo e struttura, che finiscono per diluire un’intensità in parte sprecata. Resta l’impressione che il linguaggio, la miscela di ammiccamenti, sottintesi, accenti, siano radicati in una bolognesità che il pubblico dell’India non sempre coglie a pieno.
Una crepa che si distende lungo il piano dell’ascolto per gran parte della serata, e che è forse rintracciabile solo nella singolarità della data. Ma che lascia trasparire un ventaglio di dubbi più radicali. Non tanto per la prova tecnicamente sghemba di Ludovico Guenzi, pur sempre presente proprio per la sua dimensione semi-professionale, da icona di sé stesso. Presenza condita peraltro di non decorosissima interazione con una parte di pubblico. Dalla platea, interpellata in uno dei molti momenti di scambio oltre la quarta parete, si è sollevata qualche intemperanza. Un segno anfibio, che va indagato oltre lo sgarbo. “Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” vuole restituire agli spettatori la ricchezza dell’incontro tramite l’incontro dello spettacolo. Strategia preannunciata sin dall’ingresso in sala, con Borghesi, Aiello e Guenzi seduti in proscenio che apostrofano direttamente l’uditorio. Possiamo individuare a ben vedere quattro incontri in sovrimpressione.
“Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” vuole restituire agli spettatori la ricchezza dell’incontro tramite l’incontro dello spettacolo.
Quello tra i Kepler-452 e il testo, quello tra i Kepler-452 e i Bianchi, quello tra i Bianchi e Ljuba–Gaiev, quello tra la compagnia e noi spettatori. Si avverte, però, che alla dinamica aperta che un vero incontro dovrebbe dispiegare, si sovrappone la visione autoriale entro cui è già inscritto il senso ultimo del confronto. L’equazione non è invalidata, ma perde appeal. Lo scambio è irregimentato. Così la quarta parete, punzecchiata con digressioni in platea e diametrali inviti a invadere il palco, non cade davvero, sostenuta da una tesi politica a monte che implica e determina la retorica del narrare. Tesi peraltro condivisa da chi scrive, ma che dà per scontato lo schieramento del pubblico dalla implicita parte della giustizia. Insomma: benché ai Kepler-452 piaccia l’idea della partecipazione, il pubblico retrocede a un ruolo tradizionale di osservatore da “informare” di un fatto compiuto e del relativo racconto.
Si può avanzare l’ipotesi che il fattore ambientale determini squilibrio nella ricezione e disorientamento in chi è sul palco. Il che ne avrebbe inficiato in parte l’energia e l’efficacia globali. Tanto i Kepler-452 che i Bianchi sono di casa a Bologna, dove l’atmosfera vibra senz’altro di un’empatia che fluidifica lo scambio col pubblico. Questa discrepanza evidenzia il presupposto ideologico, che a sua volta marca una distanza dal carattere del capolavoro cechoviano, in cui la complessità psichica abolisce la contrapposizione fra bene e male. Annalisa e Giuliano sono figure di fiaba, cavalieri senza macchia. Ljuba, Gaiev, Lopachin sono invece figure a tutto tondo, di cui il testo abbozza un generoso chiaroscuro. Ma, in fin dei conti, “Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso”, non è una riscrittura.
“Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso” è teatro impegnato che interroga, commuove e diverte.
È un teatro impegnato che interroga, commuove e diverte con esiti e strumenti a volte convincenti, a volte no. Soprattutto è un teatro di luoghi: Bologna, il Teatro India, la sala prove dei Kepler-452 , la casa dei Bianchi, F.I.Co., il giardino dei ciliegi. Configurazioni spaziali intrecciate nella loro irriducibile complessità. Frammenti di realtà che fanno la realtà dello spettacolo fragile, esposta al rischio. Come un dono pro tempore, in bilico, in comodato d’uso. Un rischio che vale sempre la pena correre.