Direttamente dalla luna, la sera di giovedì 28 novembre Luigi Cinque e la sua Hypertext O’rchestra sono atterrati sul palco del Teatro Studio Borgna – Auditorium Parco della Musica. Dal titolo “Il jazz visto dalla luna”, abbiamo assistito ad uno spettacolo-racconto, un vero e proprio sguardo disincantato sulla storia del Novecento all’insegna della contaminazione, inconfondibile cifra stilistica del jazz. Luigi Cinque, polistrumentista compositore e regista, è l’inventore e propositore della musica transgenica con la Hypertext O’rchestra; quest’ultima è composta da musicisti molto diversi tra loro, uniti dalla passione e dal desiderio di esprimersi attraverso questa forma d’arte.
Alla voce c’era la strabiliante Petra Magoni che, muovendosi come una menade, è riuscita a tenere sempre accesa l’attenzione del pubblico; al suo fianco il senegalese Badara Seck, la profonda e inconfondibile voce africana del gruppo; al pianoforte e alla fisarmonica Antonello Salis e alla tastiera Riccardo Fassi; Alfio Antico alla voce e alle percussioni e Alessandro Santacaterina, il più giovane del gruppo, alla chitarra battente. A impressionare maggiormente la serata è stato il visionario ed ipnotico contrabbassista e multi-strumentista Adam Ben Ezra; con lui il contrabbasso ha acquistato un nuovo ruolo, da strumento di sottofondo e accompagnamento a vero ed unico protagonista, solista e virtuoso. Affascinante e inusuale, Adam Ben Ezra è riuscito a creare atmosfere sonore uniche con sfumature di jazz, rock e word music.
Non solo musica ma il jazz in tutte le sue forme, come sentimento oltre che espressione
«Hanno chiamato il Novecento l’età dell’ansia ma avrebbero dovuto chiamarla il secolo del blues… Questa sindrome moderna era la norma per i coltivatori di cotone e per i lavoratori stagionali che un secolo fa vivevano del delta del Mississipi». Queste sono le parole di Alan Lomax che il polistrumentista Luigi Cinque ha voluto leggere ai suoi spettatori durante lo spettacolo. Non solo musica, dunque, ma il jazz in tutte le sue forme, come sentimento oltre che espressione; perché parlare di questo genere non è mai facile, in quanto si tratta di quel particolare linguaggio nato in un preciso luogo, New Orleans, dalla contaminazione e fusione di etnie, di visioni e percezioni del mondo differenti.
E quando al jazz si uniscono la musica classica europea, quella tradizionale etnica, il rock, le nuove espressioni tecnoacustiche e il canto mediterraneo si ha quell’arcobaleno sonoro chiamato Hypertext O’rchestra. Musica come sentimento, dunque, che brucia da dentro e che deve per forza fuoriuscire. Questo è stato ciò che è arrivato a chi, in silenzio, stava ad ascoltare. Un sentimento che non veniva solo trasmesso ma che lo spettatore riusciva quasi ad interiorizzare e captare fisicamente: impossibile non muovere neanche un dito. L’orchestra è andata ad indagare nuovi sentieri attraversando in modo inedito stilemi e generi. Imprevedibile e inafferrabile, versatile e senza una precisa direzione da seguire.
L’orchestra è andata ad indagare nuovi sentieri attraversando in modo inedito stilemi e generi
Il disorientamento dello spettatore sembrava voluto dagli artisti stessi ed è servito per poter cogliere fino in fondo il senso del concerto stesso: riuscire ad andare oltre la musica fine a sé stessa, oltre i confini. La pazzia che brulica sul palco si ripercuote negli spettatori che non si lasciano trasportare, ma che acquistano coscienza e consapevolezza; dall’istintiva risata si arriva, in un secondo momento, ad una profonda riflessione. Senza forma e senza prove, la Hypertext O’rchestra ha dimostrato che un mondo altro può esserci, che la musica è un inspiegabile bisogno innato dell’uomo. Bisogna lasciarsi andare e guardare la musica da un diverso punto di vista, alto e distaccato, come dalla luna e come quello della Hypertext O’rchestra; quest’ultima è veramente in grado di vedere e sentire tutto ciò che comunemente su questa terra non si riesce a vedere o a cui si rimane semplicemente indifferenti.