L’antica Roma ha solleticato l’immaginazione dei metallari fin dalla nascita del genere stesso. Genere fondamentalmente romantico (in senso ottocentesco), il metal ha fatto dell’esotismo uno dei suoi marchi di fabbrica. Furono gli Iron Maiden stessi a codificare questa caratteristica, a partire dai primi album della loro carriera. “Transylvania” e “Genghis Khan”, tracce curiosamente strumentali, traportavano l’uditorio in luoghi di storia e leggenda, lontani nello spazio e nel tempo. Un’altra traccia, poi, la più corta ma forse la più memorabile, trovava questo esotismo proprio a casa nostra, durante gli ultimi momenti della Repubblica Romana. Ritrovare una epicità storica di quel tipo sembra essere l’obbiettivo degli ADE. Ma se “Ides of March” era una celebrazione funebre della morte di Cesare, qui il linguaggio utilizzato è completamente diverso. “Rise of the Empire” è un album death metal in cui la storia viene raccontata a suon di growl, ritmiche pesanti e cattiveria.
In “Rise of the Empire”, l’ascesa di Cesare è raccontata a suon di growl e cattiveria
Un connubio sicuramente insolito, ma certamente non la cosa più strana mai realizzata in ambito metal. Ne esce fuori un album senza respiro, in cui le trombe militari, i flauti e i cori conferiscono una certa aura di epicità a un death metal particolarmente ignorante. Dopo le introduzioni di “Forge the Myth” ed “Empire”, la storia di Cesare emerge dalle nebbie del tempo con “The Gallic Hourglass” e Chains of Alesia”, dedicate all’impresa contro Vercingetorige. Sentire l’assedio di Alesia, uno dei momenti più complessi del comando militare di Cesare, raccontato da un tappeto ritmico così massacrante, può portare un ghigno sulla bocca, ma bisogna ammettere che il mix funziona. A seguire, è la traversata del Rubicone. “Once the Die is Cast” rallenta il ritmo in una cattivissima marcia thrash, per un pezzo che calca la mano sulla pesantezza.
Un album in cui gli ADE mescolano con successo antichità e Metal estremo
“Gold Roots of War” e “Ptolemy has to Fall” raccontano la conquista dell’Egitto. “Suppress the Riot” e “Veni, Vidi Vici” sono dedicate, invece, alla guerra civile che vide Cesare contro Pompeo. L’ultima è forse la canzone più riuscita di tutto l’album, forte di una ritmica più distesa e “orecchiabile” (per standard death metal, ovviamente), senza perdere per questo un’oncia di violenza. Il ritmo, inarrestabile fino a questo punto, trova un momento di relativa quiete in “The Blithe Ignorance”. il suo inizio riflessivo è poi controbilanciato da un riff che riesce ad essere anticheggiante e rullatissimo allo stesso tempo. “Rise of the Epire si chiude” con “Imperator”, dedicata alla consacrazione di Cesare al governo di Roma, con un ultima cavalcata, che non lascia che intravedere la fine della storia. Un buon album , che consiglio ai fan delle commistioni nel metal, e a quelli a cui sta antipatico Gneo Pompeo.