LA SCALA SHEPARD - "Scrivere canzoni (...) è una sorta di terapia" • MUSIC.IT
I ragazzi de La Scala Shepard.
I ragazzi de La Scala Shepard.

LA SCALA SHEPARD – “Scrivere canzoni (…) è una sorta di terapia”

Ragazzi de La Scala Shepard, è un piacere ospitarvi sulle nostre pagine. Iniziamo come sempre con un ricordo degli artisti, quindi raccontateci una vicenda o un aneddoto che non vi leverete mai dalla testa.

Il piacere è nostro. Ho una pessima memoria, quindi l’unico aneddoto che mi vene in mente ora è un fatto che riportai anche sulla nostra pagina Facebook, e che risale al periodo in cui facevamo gli artisti di strada. Alla fine di un set, un ragazzo sui 14 anni mi si avvicina timidamente con una banconota in mano. Quando mi porge l’offerta comincio a ringraziarlo, ma lui m’interrompe, e guardandomi negli occhi dice: «Vi ho dato quello che avevo, che sono uscito con i 10 euro che mi ha dato nonna. Però avrei voluto darvi di più, perché siete davvero forti».

Deve essere stata una soddisfazione unica!

A sentire quelle parole un’onda d’emozione mi tappa la bocca. Non riesco ad esprimere un concetto, e così resto lì, senza dire niente. Intanto lui se n’è già andato via. Se l’emozione non mi avesse fermato, sarebbe bastato poco per fargli questa semplice domanda: “Ma di preciso, dove sta tua nonna?”.

Il vostro modo di fondere pop, cantautorato, e suoni molto britannici, vi rende ovviamente un gruppo singolare. Da quali artisti avete tratto ispirazione finora?

Non sono molti i punti di contatto che ci accomunano, ognuno di noi ha dei gusti musicali differenti, che in un certo senso è una ricchezza. Siamo molto indipendenti l’uno dall’altro in questo senso. È solo da poco tempo che abbiamo cominciato a fare degli ascolti musicali tutti insieme durante le prove, i Talking Heads e Steve Reich sono i più gettonati in questo momento, e devo dire che questo approccio ci sta portando molte idee nuove.

Siete insieme dal 2015 eppure già avete inciso il vostro secondo album “Eureka”. Raccontateci quale è il processo creativo che entra in atto quando siete in sala.

In sala il processo creativo si concentra sull’arrangiamento, al quale dedichiamo una grandissima attenzione. Può capitare che l’embrione di un groove o di un motivetto possa nascere improvvisando in sala, ma la scrittura vera e propria dei brani avviene sempre fuori, a parte rarissime eccezioni. Vengono portate principalmente da me o da Alberto, in qualche occasione da David, che è un po’ il nostro George Harrison.

Parliamo del vostro ultimo album. Sette tracce che raccontano in maniera tanto paradossale ma quanto mai reale, l’italia nella quale stiamo vivendo, che affrontate a viso aperto con ironia e semplicità. Come mai il bisogno di esprimere questo sentimento?

La cosa curiosa è che alcune di queste canzoni, come “Su a Berlino”, son state scritte molti anni fa, ed è interessante vedere come siano ancora così attuali. Evidentemente in Italia le cose per cambiare hanno bisogno di tanto, tanto tempo. Per chi scrive è un vantaggio, perché ha più tempo per comporre, senza l’ansia di risultare anacronistico. Comunque la necessità di scrivere canzoni la troviamo il più delle volte dal bisogno di esorcizzare qualcosa che ci turba o che ci spaventa, è una sorta di terapia. Non risolviamo nulla, perlopiù coltiviamo e condividiamo dubbi. L’ironia viene usata più che altro nei miei testi piuttosto che in quelli di Alberto, mi viene abbastanza naturale e trovo che sia un buon modo per smascherare il ridicolo che si nasconde dietro ogni situazione.

Una delle canzoni che mi ha colpito di più è stata “Non ti fidare mai di un artista”, che racconta la voglia di emergere rispetto a quella che è la vera passione per l’arte. Di voi possiamo fidarci?

Il giusto, senza esagerare. Per ora le nostre intenzioni sono senza dubbio mosse dalla passione, anche perché di soldi non ce n’è l’ombra, tutto quello che guadagniamo lo reinvestiamo nel progetto. Poi un giorno, chissà, potremmo diventare come il Topolino del videoclip… scherzo, ovviamente. Forse.

Una domanda ostica per voi. In questo momento i talent vanno per la maggiore. Cosa ne pensate? Potrebbe essere una buona strada da intraprendere?

In effetti è molto ostica. Come programmi non li giudico, mi rendo conto che l’industria musicale sta disperatamente cercando di sopravvivere, e lo fa con tutti i mezzi possibili, a costo di rinunciare alla musica. Per quel che concerne chi vi partecipa, mi sembra una mossa un po’ ingenua, quasi fantozziana. Partiamo dal presupposto che oggi la carriera musicale è fatta di molti sbattimenti e poche soddisfazioni, e quindi la passione è l’unico motivo che ti può spingere a portarla avanti.

Senza passione, d’altronde, perché intraprendere un percorso artistico?

Dato che il motivo che spinge una persona a partecipare ad uno di questi programmi è fare tanto successo (e quindi ricavarci un bel po’ di soldi) in poco tempo, quello del musicista mi sembra il mestiere meno indicato per raggiungere questo obiettivo. Le possibilità di riuscire a ricavare un po’ di notorietà da questi talent sono scarsissime, e non dipendono da te, e le possibilità che quella popolarità duri e inizi a trasformarsi in introiti economici sono quasi nulle. Quando i dischi ancora si vendevano poteva avere senso un sogno del genere, ma oggi o fai la gavetta e ti costruisci il tuo pubblico o nessuno lo farà per te.

Vi ringrazio per la vostra gentilezza e disponibilità, e vi lascio due righe per dire ciò che volete.

Ringrazio te per questa intervista, spero di non essere stato troppo noioso. In questi mesi ci stiamo chiudendo in sala per buttare giù del nuovo materiale, siamo molto curiosi di vedere che ne uscirà fuori. Per ora è un’incognita totale, il che è sempre una bella premessa quando si crea qualcosa.