Dopo alcuni film molto amati dalla critica internazionale più che da quella italiana (non senza polemica), Luca Guadagnino con “Chiamami col tuo nome” ha convogliato su di sé un consenso unanime. Sundance, Berlinale, Toronto e ora le quattro nomination agli Oscar hanno accompagnato la nuova opera del regista, sigillando con il meritato plauso l’equilibrio perfettamente allineato ai due film precedenti – “Io sono l’amore” (2009) e “A bigger splash” (2015) – con i quali va a formare un’ideale Trilogia del desiderio.
Rispetto ai due capitoli precedenti, che si concedevano un taglio più ampio ed estetizzante, ora siamo in presenza di una piccola storia che si rafforza nella sua apparente semplicità. Nel contesto della campagna cremese d’inizio anni ’80, si sviluppa un tradizionale racconto di formazione – rievocazione di un percorso di crescita che probabilmente riguarda lo stesso regista. Il diciassettenne Elio – la sorprendente rivelazione Timothée Calamet – si innamora del ventiquattrenne americano Oliver (Armie Hammer), ospite estivo nella villa di famiglia per finire la tesi di dottorato curata dal padre del ragazzo (Michael Stulbarg). Elio viene immediatamente attratto da questa presenza che cambierà per sempre la sua vita.
Luca Guadagnino scandisce i tempi del desiderio e dell’innamoramento con “Chiamami col tuo nome”.
Luca Guadagnino scandisce i tempi del desiderio e dell’innamoramento, relegando al di fuori del quadro la sessualità più esplicita e affidando alla simbologia, da quella più scabrosa – una pesca fecondata – a quella più soffusamente incisiva, la scansione fasica della passione. Il regista concede al sentimento la possibilità di esplodere pudico, senza i fragori e senza i limiti delle convenzioni di genere, rimuovendo le disparità anagrafiche, culturali, persino familiari, come il rapporto di grande sincerità che Elio ha con i genitori, in particolare col padre. E lancia il suo discorso autoriale ben oltre le retoriche e le ripetizioni.
Probabilmente l’impressione risultante è di una storia irrealistica e ovattata in un Nord Italia che sembra quasi un paradiso terrestre, una intellettuale e borghese riserva artistica per la purezza amorosa. Gli spazi fecondati dalla natura lussureggiante e dalla calura estiva si fanno sostanza per accogliere il trionfo della bellezza. La bellezza della tensione verso il coito, più che il coito stesso. La bellezza che si traduce in un corpo per Elio, scrutato, sfiorato, posseduto e, infine, lasciato andare.
È una celebrazione alta l’opera di Luca Guadagnino, che non ambisce a trovare riscontro nella realtà, né di allora – qualche riferimento a Craxi serve più a contestualizzare il fatto che a dargli contenuto – né, purtroppo, di oggi. Il regista lavora sui dettagli più che sui raccordi marcati di trama, punteggiando la pellicola di senso senza indugi né sottolineature, ma piuttosto con accenni che si avvalorano l’un l’altro. Come in una partitura musicale, ogni singola nota, accordata per celebrare l’amore trascendente – l’età, l’epoca, la distanza, l’omosessualità – risuona magnifica e irripetibile, regalando un’emozione che si prolunga sui titoli di coda, oltre il film e la sala.