Diamo il benvenuto su Music.it a Mouri. Prima domanda per rompere il ghiaccio: raccontaci qualcosa di divertente o di imbarazzante che ti è successo in studio o su un palco.
Una volta sono caduto [ride]. Non può succedere niente di più imbarazzante su un palco. Poi mi è successo un’altra volta, sono caduto due volte; ho anche bissato per sicurezza! Diciamo che sono molto maldestro. Una volta, durante un freestyle ho fatto crollare un muro di casse. Il pubblico se la ride e va bene così, speriamo che se la rida anche il proprietario del locale.
Parliamo di “Che peccato”. Come nasce questo brano e dove vuole arrivare?
“Che peccato” vuole arrivare nello stesso punto da dove è nato: spostare l’attenzione su alcune problematiche attuali e si rivolge specialmente ai ragazzi che dovrebbero fare qualcosa per cambiare le cose. “Che peccato” è una frase che dici quando vai in giro per il mio paese e in molti paesi del sud, dove c’è tanto di buono, tanto tanto ma tante possibilità dissipate e sprecate.
E per te cosa rappresenta questa frase nel mondo della musica?
Io ho detto “Che peccato” tutte le volte che ho visto uno strumento abbandonato in una casa a fare la polvere. L’ho detto per dei talenti che non hanno avuto la possibilità di esprimersi, come quello strumento musicale. Nell’ambito musicale è quello che mi porta a dire “Che peccato”, vedere una persona di talento che non ha la possibilità di farlo fiorire.
Come si può fare ad esprimere questo talento e a far tornare quello strumento a suonare?
Diciamo che oggi come oggi un computer in casa ce l’hanno tutti, quindi bene o male è possibile esprimere ciò che uno ha da dire, anche con mezzi discreti. Io per usare il computer dovevo andare nell’ufficio di mio padre la domenica, quando l’azienda era chiusa. Oggi non è più così ed è anche più facile registrare e condividere materiale. Quindi non credo che non ci sia la possibilità di esprimersi ma semplicemente ci sono altre priorità tipo la scarpa firmata, la droga, l’alcol che fanno passare il resto in secondo piano. Qui da noi al sud ci vorrebbe una forza sinergica maggiore e cercare di non far scappare le persone ma, anzi cercare di farle esprimere.
Una cosa che colpisce subito è il video di “Che peccato”. Come è nata l’idea del video e perché la scelta di un video così visionario?
Le immagini del video sono partorite dalla mente visionaria del maestro Ferdinando Arnò che ha coordinato il progetto. Abbiamo avuti molti confronti sul video e alla fine, un’idea dopo l’altra, è venuto alla luce così come lo avete visto. Ci sono molti riferimenti artistici nel video, è un mix di suggestions che volevano colpire nei modi e nei punti in cui volevamo noi.
E la scelta di un territorio “familiare” quanto ha influito sul video?
Girare il video a Manduria è stata una necessità primaria. Abbiamo rappresentato i posti dove sono state vissute le emozioni che racconto nella canzone. Quelli nel video sono i posti che ho frequentato sin da piccolo e appaiono sullo sfondo le Terrazze Manduriane che sembrano un po’ quelle di Beirut; non è casuale la scelta ma è ciò che io ho vissuto da bambino.
Come se la cava la scena rap e hip hop del nostro paese? Credi che si possa fare di più?
Si può sempre fare di più [ride]. Si può sempre migliorare, però l’Italia è arrivata a un buon livello secondo me. Se dobbiamo fare un discorso di paragone con le altre nazioni, allora non c’è storia perché siamo un paese piccolissimo che nel mainstream fa quasi i numeri che fanno gli americani, con la differenza che loro si affacciano sul mercato globale. Ci sono fenomeni del momento che hanno raggiunto un pubblico maggiore, tipo Sfera Ebbasta che col suo nuovo album ha avuto una finestra di lancio mondiale, ma poche altre esperienze del genere. Comunque a mio avviso la scena italiana è in forma più che mai e ha le attenzione di tutti: tv, radio, persone. Ormai la gente sa di cosa stiamo parlando, è un linguaggio parlato che arriva a tutti. Prima era più una cosa riservata ai patiti del genere, ma adesso tutti sanno di cosa parliamo.
Però sono più le nuove generazione che hanno fatto il grosso del lavoro per questo genere, no?
Diciamo che i giovani hanno combattuto la guerra meglio degli anziani. Forse hanno avuto uno scenario più fertile negli ultimi anni ma anche la “vecchia scuola” ha fatto più di qualche errore. Io mi ricordo che prima c’era un clima quasi di nonnismo e cameratismo, come per venire sempre prima degli altri. Diciamo che questi segnali non sono mai stati molto produttivi.
Forse anche nella scelta dei temi, molto spesso i giovani sembrano più schierati della vecchia scuola.
Sì, ma è anche vero che i giovani sono molto più superficiali. Pensano alla scarpa, alla moda e a tutte queste cose che prima erano bandite. Diciamo che i giovani sembrano più “presi bene”, mentre prima la vecchia scuola era quasi una “presa a male”. I giovani spesso si perdono dietro il look e la moda, noi siamo cresciuti in un caos che diceva “domani sarà peggio”, siamo stati una generazione di depressi [ride]. Era un contesto diverso, ma la magia che ho respirato nei momenti di aggregazione con la vecchia scuola, nelle jam session, non tornerà più e mi dispiace.
Il brano è uscito in periodo particolare, tra emergenza sanitaria e nuovi lockdown. Come sta la tua musica?
La mia musica sicuramente ne risente del non andare sul palco, non abbracciare la gente e non avere il feedback che avevo prima dopo un live. Io vedo questo momento come una sorta di rodaggio; diciamo che siamo fermi ai box e stiamo mettendo a punto il motore. Sto scrivendo molta musica, mi sto dedicando alla produzione e anche allo studio.
Come pensi che sarà il futuro della musica nel nostro paese dopo quest’anno terribile?
Sicuramente le gente non ne uscirà illesa. Questa cosa colpisce la morfologia dell’uomo negli atteggiamenti e in tutto. Me ne rendevo conto quest’estate che quasi faceva strano rivedere le persone ed entrarci in contatto. Ci sarà sempre una sorta di gap nel passare dall’apertura alla chiusura e viceversa; speriamo che le conseguenze di questo periodo siano positive sulle persone, magari ne usciranno migliori.
Certo è che tutte le alternative pensate per la musica live, non sono ottimali, diciamo.
Certe cose non fanno parte della nostra cultura. Tipo il Drive In, è una figata, ma non fa parte del nostro modo di vivere, soprattutto in un piccolo paese come Manduria ad esempio. Dobbiamo rassegnarci al fatto che è la nostra cultura a determinare i nostri modi di fare ed è difficile riconvertirsi a qualcosa che non ci appartiene. Noi abbiamo le nostre tradizioni e possiamo seguire quelle.
Secondo te, quale futuro ci sarà per i lavoratori dello spettacolo? Pensi si possa fare di più al riguardo.
La situazione è drammatica e tutte le iniziative che hanno fatto vanno a tamponare un po’ ma senza risolvere il problema. Qui non si riconosce il musicista come una professione. Si riconosce il grande musicista quello che fattura ma tutte le altre realtà non vengono prese in considerazione e sono quelle che stanno soffrendo di più. Poi ovviamente, il musicista non viene riconosciuto dallo Stato come un professionista e non ha diritto. L’Italia dovrebbe regolamentare la situazione e fare qualcosa per i musicisti e i lavoratori del settore come succede negli altri paesi dove appartengono a categorie riconosciute.
Ultima domanda, il classico “fatti una domanda e datti una risposta”. Che puoi dirci?
Se mi dovessi fare una domanda direi: pensi che la tua musica sia in forma?
E mi risponderei: non lo so, sto cercando di capirlo!