Rancore, sono felice di ospitarti sulle nostre pagine. Rompiamo subito il ghiaccio. Ti chiedo di raccontarmi un episodio legato alla musica che ti è rimasto particolarmente impresso, qualcosa che non dimenticherai mai.
Ti racconto una cosa che è successa in realtà fuori dal palco, ma può essere riassuntiva di un periodo che ho vissuto. La prima volta che ho visto Pisa è stato in un’atmosfera particolare. Non avevo mai visto quella città, ed è accaduto di notte, completamente da solo, a circa sedici o diciassette anni. Era uno dei primi viaggi che facevo da solo in autobus, per andare a fare una gara di freestyle al Tecniche Perfette. Come al solito non sono arrivato primo ma secondo (ride).
Mi sono ritrovato a dover aspettare il treno delle sette di mattina, non potendomi permettere un albergo o altro, quindi mi sono fatto questa camminata insolita, e non dimenticherò mai il momento in cui mi sono trovato davanti la torre di Pisa, quasi per caso. Mi stupii e mi rimase impressa questa immagine della torre, che sembrava assurdo potesse stare in piedi, vedendola così piegata, di notte, senza nessuno nei dintorni. Poteva sembrare quasi finta, surreale. Questo può riassumere quel periodo della mia vita nel quale ho girato tantissime città facendo gare, talvolta addormentandomi nei bar nell’attesa dei treni delle 6. Il ricordo di Pisa però mi rimarrà sempre impresso, forse anche perché venivo da una gara molto forte, e mi sono ritrovato a passare dall’eccitazione di quel momento, alla solitudine sotto quella torre. Un momento particolare, alla deriva, ma anche un po’ magico.
In poche parole, quale è stata la tua storia musicale e come mai la scelta del rap a dispetto di altri generi in voga nei primi anni duemila? Perché la decisione di sceglierlo come espressione artistica?
Mi son sempre piaciuti gli sport in cui giochi da solo. Venivo dallo skateboarding, che facevo per conto mio. Sarebbe stato naturale passare a generi come il metal o il punk, ma proprio il rap ha molte similitudini con lo skate. Quando chiudi rime è come chiudere trick Puoi fare rap da solo, con o senza base. Questo approccio semplice e solitario, ma ricco di complessità, è ciò che mi ha attirato. Specialmente nella libertà di poter fare rap ovunque e in ogni momento. Inoltre mi ha dato la possibilità di salire su un palco senza dovermi fare un concerto, solo iscrivendomi alle gare. Lì trovi un pubblico difficile che non è lì per applaudirti, ma aspetta che il tuo avversario ti prenda per il culo. Credo sia uno dei palchi più ardui. È come entrare nel Colosseo durante una sfida di gladiatori. Ma serve a farsi le ossa.
Quando è iniziato tutto?
Tutto è iniziato nel 2003, quando il rap ha iniziato a farsi spazio anche grazie ad Eminem. Da lì è stato un percorso lento e faticoso, ricco di errori, di passi falsi, e anche di fortune, che mi hanno portato ad incidere il mio primo disco a 15 anni.
C’è un momento particolare in cui hai deciso di fare musica? Il momento in cui è scoccata la scintilla?
Ricordo che ci fu un giorno in cui, forse suggestionato da qualche videoclip, presi in mano un foglio ed iniziai a scrivere rime, e mi resi conto che non era un’operazione scontata come poteva sembrare. Ma c’era qualcosa di divertente. Non ricordo il giorno o il luogo specifico, ma c’è stato un momento in cui presi foglio e penna. Era in un luogo pubblico se non erro, o comunque insolito per la scrittura, ma lo feci comunque in quel momento, indipendentemente da ciò che avevo intorno. Quel foglio l’ho portato dietro per un po’. Poi diventarono due, tre, fino ad arrivare alla quantità infinita di fogli che mi ritrovo in casa e che metterebbero paura anche all’Enigmista! Quello fu il momento in cui scattò la scintilla, avevo tredici anni.
Ci sono artisti che ti hanno accompagnato o ispirato durante il tuo percorso musicale?
Ho nominato più di una volta Manu Chao, in quanto sia il suo linguaggio musicale che lessicale, sono molto internazionali, da viaggio, mi piace molto. Rompe le barriere linguistiche facendo una musica semplice da comprendere. Anche quando ero molto piccolo è sempre stato un punto di riferimento. Lo ascolto spesso e mi porta sempre in un mondo che porto nel cuore. Anche Eminem è un personaggio che ho sempre seguito e che comunque considero come punto di riferimento. Il mio indossare il cappuccio rimane un’eco della passione che ho avuto per lui. Ovviamente poi la musica che ho seguito e mi ha ispirato è stata anche molto l’elettronica e molte colonne sonore e musica classica. Ogni volta che la ascolto anche questa mi emoziona e mi fa fare un salto indietro nel tempo.
Se non erro, anche Dj Myke disse che le colonne sonore facevano parte delle sue ispirazioni.
Sicuramente, anche i lavori fatti con Dj Myke sono un ottimo esempio di ispirazione dalle colonne sonore, specialmente a livello di approccio. Perché la colonna sonora non ha genere. Deve semplicemente riprodurre l’atmosfera di quello che vuole raccontare, ma non ha un genere.
Parlando di generi, ti ho sentito spesso parlare di hermetic hip hop, quasi come un’autoclassificazione. Come lo intendi? Cosa rappresenta per te?
Per me l’hermetic hip hop è in un certo senso un modo per vedere in primis le quattro discipline dell’hip hop, ma specialmente un modo di raccontare il rap in maniera ermetica. Permette di unire il mondo interno con quello esterno, creando un collegamento tra loro, piuttosto che una divisione. Oggi probabilmente il rap lo fa qualche volta, parlando o di quello che c’è fuori o di come una persona stia male o bene emotivamente, ma senza creare mai un collegamento vero. Con l’hermetic si tenta di portare avanti questa idea e creare dei ponti grazie alle metafore e all’utilizzo della parola.
È un tipo di scrittura su più livelli, insomma.
L’importante fattore della scrittura a più livelli permette, visto che tutto è ermetico, di scoprire pian piano tutto ciò che era nascosto. Fino a trovare l’essenza della traccia, di cui l’ascoltatore può non avere una comprensione immediata di ciò che viene detto, ma magari averne più di una contemporaneamente. Per questo motivo ogni volta che la riascolti ne hai una comprensione diversa rispetto a quella precedente. Diciamo che faccio musica a cipolla (ride) dove ci sono degli strati nei quali tu puoi andare sempre più a fondo, e dove ogni frase ha due, tre, quattro oppure infiniti significati. È un tipo di musica che prova a diventare uno specchio in cui vedi il tuo volto riflesso, ma anche dei punti fissi che io ho deciso di mettere sullo sfondo.
Le tue parole mi fanno venire in mente due canzoni del tuo lavoro, che sono “Arlecchino” e “Sangue di drago”.
Prendendo come esempio “Arlecchino” sembra che io parli di me, ma invece non sto parlando di me. Faccio una serie di citazioni ─ nella prima strofa cito fumetti, nella seconda letteratura e nella terza quadri ─ attraverso le quali racconto me, e allo stesso tempo l’Italia e Arlecchino. Come un quadro astratto, che quando lo guardi non ti chiedi cosa voglia comunicare ma lo percepisci, ne godi e basta. “Arlecchino” cerca di stimolare altri sensi oltre l’udito. A differenza di molte canzoni che si sentono oggi, la definirei una canzone quadro, dove se ti chiedi di cosa parla non puoi darti una risposta, perché parla di più cose contemporaneamente.
Un’ultima domanda prima di passare a parlare di “Musica per bambini”. Sei stato fermo per tre anni, ci sono state tante collaborazioni ma nulla che fosse solo tuo. Come mai? Ti ha bloccato qualcosa?
Ti correggo. In realtà ho fatto qualcosa in quegli anni, come ristampare il primo disco “Segui me” per il decimo compleanno della sua uscita. Per l’occasione c’è stato un tour, affiancato da una serie di novità. Ho fatto cose che non avevo mai fatto, come andare a suonare in strada mascherato assieme ad altre persone. Ho fatto una serie di follie che avrei sempre voluto fare, e gli ho dedicato questi anni. Per questo “Musica per Bambini” è uscito leggermente dopo le aspettative. Ho sperimentato tutto ciò che volevo sperimentare dal punto di vista live, inserendo costumi, maghi, scene teatrali. Quello che poi è diventato il concept di “Musica per Bambini”, insomma. Inoltre ci sono le collaborazioni che prima citavi, che per me sono state molto importanti e che ho trattato come se fossero pezzi del mio disco.
Quindi tre anni di preparazione ed esperienza possiamo dire?
Esatto. Se devo dirti la verità non avevo mezzi per produrre “Musica per Bambini”, proprio a livello pratico. Dovevo prima trovare il modo di fare cose più importanti nella vita, tipo la vita stessa (ride). Solitamente fare musica richiede un lavoro complesso, che va fatto in un clima di tranquillità, e c’è stato tutto tranne che quello. Dentro al disco si sente, si percepisce e si racconta. Per questo ora non ho problemi a dirlo. Quello che dico nel disco è vero, e fondamentalmente è già scritto il motivo per il quale è uscito in questo momento e non in un altro.
L’ho ascoltato diverse volte ed è un lavoro molto complesso dove in ogni brano ci sono grandi differenze, ma c’è un filo rosso che unisce tutte le canzoni. Qual è per te?
Ciò che accomuna tutto è il confessarsi. È una grossa confessione scritta per essere una confessione musicata, dove si crea un mondo nel quale riesci ad entrare e dove trovi qualcosa di chiaro, qualcosa di scuro, qualcosa di più irriverente e qualcosa di più poetico. Ma alla fine il filo conduttore è questa confessione sincera, dove non dici ciò che vuoi sentirti dire ma dici quello che è in realtà, esprimendo i fatti per come stanno senza girarci intorno. Magari anche usando delle metafore, che a volte raccontano meglio la realtà di quello che poi è la realtà stessa.
C’è anche la paura del mondo, che accomuna un po’ tutte le canzoni. E c’è anche al tempo stesso la voglia di superare questa paura.
Parlando proprio di questo, spesso affronti sentimenti opposti, parlando per assoluti, come felicità e tristezza. A quale canzone quindi assoceresti il sentimento più positivo e a quale quello più negativo?
Il sentimento più positivo lo assocerei a “Skatepark” mentre quello più negativo lo assocerei ad “Underman”.
Può essere legato in qualche modo alla scelta di “Underman” come primo singolo e prima traccia di “Musica per bambini”?
Certamente, per far capire subito che non sto sto a scherzà pe n’cazzo. E soprattutto per vomitare prima di ricominciare a mangiare. È inutile mangiare se prima non butti fuori quello che hai dentro.
Sei un artista sostanzialmente cupo. Considerando vero che l’uomo è sempre alla ricerca della felicità, qualora tu la trovassi, smetteresti di essere Rancore?
Assolutamente no. Potrei essere frainteso perché “Underman” è la canzone più negativa, ma per quello è stata messa come prima traccia. Ciò significa che c’è una grande valorizzazione delle cose positive, come quando ti danno un piatto con verdure e un’altra cosa che ti piace, e ti mangi prima le verdure, lasciando ciò che ti piace per ultimo. Non smetterei perché Rancore, oltre a questo disco, vive già la sua esperienza di ispirazione grazie alla felicità. La creatività non deve mai passare attraverso il male, altrimenti non è una creatività vera, ma una tossicità dovuta dal voler esprimere il proprio ego. Quando qualcuno riesce a raccogliere la complessità della vita e raccontarla, ha fatto ciò che deve fare uno scrittore. Rancore è il nome che ho scelto per scrivere ma, nella complessità del rap che faccio, non si può prendere energia solo dalla rabbia.
Quindi c’è una differenza tra il Rancore di oggi e quello di tre anni fa, prima di “Musica per bambini”?
Tantissima, per mille motivi. Questo è il primo disco che faccio per conto mio, anche come etichetta. Una quantità di responsabilità e di soddisfazioni non indifferenti che mi hanno portato, nel bene e nel male, a cambiare, a crescere. “Musica per Bambini” è il disco dove alla fine sono io diventato più adulto
Quindi potrebbe far crescere anche gli altri “bambini” ascoltandolo?
Questo non lo so. Ma la mia speranza è che crei qualcosa di positivo, o comunque una riflessione costruttiva al di là del negativo o del positivo. Poi saranno le persone a dirmelo. Questo alla fine è lo scopo dell’hermetic hip hop: non complicare le cose per volerle complicare, ma per azionare una serie di meccanismi che magari non sarebbero azionati con un tipo di intrattenimento non accompagnato da un certo tipo di pensiero.
Possiamo considerare allora “Musica per Bambini” come la fine di un viaggio, ma anche l’inizio di un nuovo percorso?
Assolutamente sì. È il primo disco fatto dal muso alla coda completamente da solo, quindi è più una partenza che una fine. Anche a livello di produzione e di persone che mi hanno affiancato sono nate molte collaborazioni e potranno iniziare tanti progetti a partire da questo. Forse è la cosa più importante che è avvenuta.
Invece, immaginando Rancore tra dieci anni, come ti piacerebbe che vedesse il Rancore attuale? Che ricordo dovrebbe averne?
Ti dirò, il Rancore attuale ha fatto di tutto affinché il Rancore del futuro non ne abbia un brutto ricordo, anche se probabilmente e sicuramente lo avrà. Ma posso dire che il Rancore del presente si sarà impegnato tanto affinché quello del futuro sia felice. Sicuramente quello del futuro lo giustificherà dicendo che ha sempre fatto il possibile, e non si è mai dimenticato di lui.
Parlando invece del mondo attuale e delle realtà che sostengono i nuovi musicisti, credi che ce ne siano di valide che li incoraggiano ad andare avanti o iniziare a fare musica?
Ti dirò la verità. La visibilità oggi spinge le persone a fare musica. Basta fare un videoclip giusto, pagare un produttore, uno studio. Ci sono personaggi che escono dal nulla ed hanno successo, per quanto effimero. Purtroppo non ci sono tantissimi blocchi nello spronare i ragazzi, anzi. Sono anche troppe le realtà che li invogliano a fare musica, come se fosse semplice. Sarò stronzo, ma penso questo. È tutto molto confuso. Chi non ha mai fatto musica, inizia a farla perché ha tanti follower. È un periodo strano, la tecnologia cambia quotidianamente questo mondo, dove basta un investimento per fare qualcosa. Se avanzano fondi, fai musica tanto per. Uno dovrebbe farlo con qualcosa da dire, o rimanere zitto. È la realtà stessa a spronare le persone a fare qualcosa, facendo diventare tutti artisti. Se lo siamo tutti, tutti giudichiamo e diamo fiato alla bocca. E nessuno riesce più a comunicare.
Un consiglio che daresti a chi inizia a fare musica?
Pensa sempre a fare ciò che ti piace fare, cercando di capire che c’è sempre qualcuno simile a te, e se quella cosa ti tocca, toccherà anche qualcun altro. E se non saranno uguali a te, saranno intrattenuti dal vedere una persona che sa esprimere se stessa. Esprimere se stessi è la cosa più giusta da fare.
Al contrario, qualcosa che sconsiglieresti.
Sconsiglierei sempre di ascoltare troppo ciò che ti dicono gli altri quando cercano di farti capire quello che devi fare. Se il mondo ti fa capire che devi per forza fare qualcosa per ottenerne un’altra, allora non devi mai credere troppo a questo, perché non è reale. Chi rompe la regola è colui che fa la regola, e il sistema si deve adeguare a chi fa le regole, non a chi le segue. Sostanzialmente devi sabotare. Non con un’attentato ovviamente ma sabotare per primo te stesso. Solo così avrai la capacità di sabotare il mondo. Sembra di essere in “Matrix” ma è così (ride).
Un’ultima domanda. Com’è il tuo rapporto con il pubblico?
Intanto devo dire che sono molto contento di come sta reagendo a “Musica per Bambini”. Il mio rapporto è molto diretto, non c’è una divisione tra pubblico e chi fa spettacolo. Il pubblico viene messo in mezzo. Se una persona mi fa un video con il cellulare, e a me non va bene, gli levo il cellulare. Vado là e dico: “È troppo tempo che mi stai filmando e non ti stai godendo il concerto. Ora ti levo il cellulare e faccio io il video a te mentre mi guardi. Se tu lo fai a me, io lo faccio a te”. Non c’è malizia in questo, non è che non voglio che facciano i video. Ma dico: “Se dobbiamo giocare, allora giochiamo insieme”. Cerco di abbattere le barriere tra il pubblico e lo spettacolo e aumentare all’eccesso la comunicazione, dato che ormai sembra sia finita.
Ti ho rotto le palle abbastanza, ma sono contento di tutto quello che abbiamo tirato fuori. Ora ti lascio in pace e ti chiedo di salutare tutti i fan e i lettori come vuoi tu.
Su ‘ste cose so un po’ incapace, me becchi impreparato! Vorrei ringraziare tutte le persone che stanno ascoltando “Musica per Bambini” e anche tutte quelle che hanno compreso, ad esempio, il nuovo singolo “Depressissimo”. Sono felice che nonostante la canzone molto intima e pungente stiano capendo ciò che sto dicendo, e percepisco che qualcosa si sta muovendo. È un calore di fondo che, considerato il freddo dal quale venivo, conta tantissimo.