Esistono film che nascono e muoiono nei festival. Opere che beneficiano di una vetrina prestigiosa e che forse è stata da subito l’unica ragione della loro nascita. Dopotutto, è giusto così. In un festival, questo veneziano, che negli ultimi anni ha assunto sempre più la forma di un ponte diretto tra la laguna e l’Academy, si è finito per dimenticare che proprio un certo cinema individua la varietà e la qualità di una rassegna internazionale. Rientra a pieno titolo in questa categoria – con tutti i benefici e i sacrifici ad essa ascritti – il secondo film del Concorso di questa Venezia 75.
Si tratta di “The Mountain” del regista americano Rick Alverson, habitué indipendente del Sundance Festival per le sue regie precedenti (ben 6!), che arriva al Lido per la prima volta quest’anno, direttamente nella sezione principale. A lui va dato il merito di non aver rinunciato alla sua anima indie anche in quest’occasione, ma la mancanza di compromessi estetici e contenutistici pesa sul film, probabilmente più di quanto meriterebbe, ad essere onesti.
La storia striminzita di “The Mountain” soffre il confronto con un impianto formale rigorosissimo, che trasforma il formato 1,33 dello schermo in un susseguirsi di diapositive curatissime.
Nell’America degli anni ’50 un giovane ragazzo (Tye Sheridan) orfano di madre, malata mentale, e di padre instabile, si unisce al seguito dello psichiatra Wallace Fiennes (Jeff Goldblum) praticante e sostenitore di elettroshock e lobotomie. Nonostante le sue pratiche siano state screditate dalla comunità scientifica, il medico continua a praticarla in privato e a fotografare il tutto con il suo nuovo aiutante, fino alla scoperta di una nascente comunità new age.
In fin dei conti la vicenda può essere letta con interesse sulla carta ma rimane confinata in questa traccia abbozzata. La storia striminzita soffre il confronto con un impianto formale rigorosissimo, che trasforma il formato 1,33 dello schermo in un susseguirsi di diapositive curatissime. “The Mountain” finisce così per esser un film scisso tra l’eccesso estetico e la fragilità narrativa. L’impressione ricavata è di un regista che ha confidato troppo nella propria capacità visiva, riempiendo lo schermo di geometrie ricercate e cromie inappuntabili alla Roy Anderson.
Bellissimo, arido, ma ciò che non si può perdonare al film di Rick Alverson è l’orgoglio di essere sia l’uno che l’altro.
“The Mountain” è un esempio di cinema che regala tantissimo agli occhi ma nega tutto all’emozione e soprattutto alla memoria. Solamente un lascito di presunzione e di tanti interrogativi chiude la visione, immobilizzando il coinvolgimento e tracciando una distanza amarissima ma forse voluta – ed è questo l’errore più grave – tra lo schermo e la platea. “The Mountain” non può neppure confidare in una lettura moralistica o etica, dal momento che quel poco che viene raccontato e detto rimane dubbio e chiuso in sé stesso, quando non risulta discutibile e improprio. Bellissimo, arido, ma ciò che non si può perdonare al film è l’orgoglio di essere sia l’uno che l’altro.