TRE VOLTI, a metà fra finzione e documentario, affronta l'Iran rurale di oggi
Una scena del film “Tre Volti”.
Una scena del film “Tre Volti” di e con Jafar Panahi.

TRE VOLTI, a metà fra finzione e documentario, affronta l’Iran rurale di oggi

La famosa star del cinema iraniano Behnaz Jafari riceve un messaggio video piuttosto inquietante sul suo cellulare. Marziyeh (Marziyeh Rezaie), proveniente dalla regione montuosa nel nord-ovest dell’Iran, minaccia di suicidarsi perché non le è permesso frequentare una scuola di recitazione, e accusa Jafari di non essere riuscita ad aiutarla. La ragazza sostiene che solo Jafari avrebbe potuto convincere i suoi genitori, ma ormai questi l’hanno obbligata a sposarsi e ad abbandonare la sua passione per il teatro. Di conseguenza non vede altra via d’uscita se non quella di uccidersi. Il video termina con la giovane donna disperata che si impicca. Jafari, preda di dubbi e sensi di colpa, chiede al regista Jafar Panahi di aiutarla a capire se il video sia reale o meno. Insieme, prendono la strada per il villaggio della ragazza nelle remote montagne del paese, dove le tradizioni ancestrali continuano a dettare la vita locale.

In “Tre volti”, premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes, Jafar Panahi ci cattura sin dalla scena d’apertura: un pianosequenza indimenticabile di diversi minuti del video girato dalla ragazza con il suo laptop. Questo inserto di ripresa artigianale funge da innesco sia al film che vediamo, sia al film che Jafar Panahi ha girato. E forse non si tratta della stessa cosa! Questo che sarebbe l’inizio efficace di ogni film, qui non è solo un eccitante motore di trama, ma anche una sospensione di questa che è più di una semplice storia. È la prima incisione di un film a cuore aperto, dove la cinepresa diventa un bisturi per esporre l’anima viva del cinema. Il video del telefono cellulare è chiaro e allo stesso tempo confuso: ma cosa vediamo realmente? Tutto è sempre come ci si presenta? E dove siamo effettivamente quando viaggiamo con Jafari e il regista?

In “Tre volti”, premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes, Jafar Panahi ci cattura sin dalla scena d’apertura.

Chiaramente ci troviamo nell’abitacolo di un’automobile, ma siamo davvero in un film? Jafari e Panahi interpretano dei ruoli? E se sì, sono i soli? L’essere alla guida di Jafar Panahi, come accadeva in “Taxi Teheran” – Orso d’oro nel 2015 – è un espediente perfetto e ambivalente. Strumento e metafora del regista per inviare il suo film lungo un percorso incerto e che solo apparentemente ha una destinazione. In questo caso, un angolo dell’Iran dove i confini tra paesi e lingue non possono essere tracciati in modo netto. Il viaggio in una provincia remota, popolata da iraniani di confine e che l’attrice-cittadina Behnaz Jafari fatica a capire, impatta una barriera che è quella del linguaggio – si parla più turco che farsi – ma è soprattutto culturale. Nel villaggio il disprezzo per gli artisti è tangibile, e ogni forma di impegno culturale viene condannata perché non apporta alcuna utilità alla comunità.

La natura ambivalente appartiene anche alla domanda cardine di “Tre volti”: documentario o film di finzione? Altri quesiti la intrecceranno. Per esempio quello su cosa sia effettivamente un paese e se non si riduca tutto alle frontiere geografiche. O ancora la questione sulla differenza di genere. A tal proposito è pienamente riuscito il discorso sulla mascolinità fatto dal regista. Jafar Panahi gioca al confine tra arte e realtà, finzione e verità, per proporre una feroce ma tenera satira della vita della sua terra. Ed è ingenuo dire che il racconto neghi spazio al maschile. Nella società patriarcale le donne sono relegate nei ruoli di ragazze, madri e mogli. Ma il potere narrativo e umanatemene cinematografico di Jafar Panahi sta nel non giudicare mai suoi personaggi. Infatti, proprio col fratello di Marziyeh, la cui ridicola violenza regala momenti da antologia, arriva la conferma che per il regista l’isteria è antinomicamente maschile.

La natura ambivalente appartiene anche alla domanda cardine di “Tre volti”: documentario o film di finzione?

La confusione tra realtà e finzione è, d’altronde, un filo conduttore dell’intero lavoro del regista, tra i più importanti cineasti della new wave iraniana degli anni ’90. Come i film di Abbas Kiarostami, di cui era assistente alla regia, anche quelli di Jafar Panahi hanno denotato sin dall’inizio un carattere auto-riflessivo. “Tre volti” echeggia con altre note la semplice storia della bambina dimenticata a scuola dalla madre in “Lo specchio” (1997). Il racconto si trasformava in un film sul film con la piccola protagonista che ad un certo punto, annoiata dal camminare per Teheran a favore di camera, rompeva la quarta parete. Ora come allora il congegno narrativo non infrange l’illusione, ma la rafforza con precisione: è un film, ma allo stesso tempo è più che film. Per Jafar Panahi e molti cineasti connazionali questo metodo è stato anche un modo per aggirare la censura di stato.

Inviso alle autorità che nel 2010 gli hanno revocato il passaporto impedendogli di partecipare alla Berlinale, poco dopo Jafar Panahi è stato arrestato e condannato per una serie di reati vaghi, tra cui quello di propaganda contro il regime. La pena detentiva iniziale è stata annullata nel 2011, ma è rimasto il divieto ventennale di lasciare il paese e di toccare la cinepresa. Già nello stesso anno però, il regista riesce a contrabbandare a Cannes il film registrato nel suo appartamento. In “This Is Not a Film” (2011) l’autore riflette sulla propria condizione e, analogamente al dipinto magrittiano “Ceçi n’est pas une pipe”, solleva ogni genere di domanda sulla relazione tra immagine e realtà, tra parole e cose. Per diverse ragioni ogni film del regista è sfuggito alla definizione stessa di film, e “Tre volti” non fa eccezione.

Per diverse ragioni ogni film di Jafar Panahi è sfuggito alla definizione stessa di film, e “Tre volti” non fa eccezione.

La cosa più interessante, soprattutto con questo quarto lavoro realizzato in clandestinità, è chiedersi se un film sia in fin dei conti un oggetto, un prodotto o finanche un’esperienza, o piuttosto qualcosa di molto più metafisico, essenziale e sfuggente. “Tre volti” non è solo un fine gioco intellettuale, proprio perché il girare è diventato una pratica di importanza vitale. Se non ti è permesso fare film ma non sai davvero perché, e come artista devi creare per esprimere te stesso e dare forma alla tua meraviglia e al tuo sconcerto riguardo al mondo, cos’è allora quello che fai? Ci accorgiamo che quell’interrogativo – documentario o finzione? – è basilare solo se lo vogliamo. Nel nostro bisogno di catalogare il mondo, di denominare ogni cosa, cerchiamo una risposta finita. Ma la verità è che non importa sapere cosa faccia Jafar Panahi e cosa sia “Tre volti”, l’importante è che lo faccia.

Il film è una cornice per la realtà. I finestrini di un’automobile aperti o (semi)chiusi, gli specchietti retrovisori, le luci notturne del traffico in senso opposto o l’aurora sulla cima di una montagna: in “Tre volti” la realtà è inquadrata in cornici che cambiano. Anche il riflesso negli occhiali da sole del regista o lo schermo del telefono cellulare determinano il modo low budget in cui il fotogramma inquadra la realtà. Come a dire che se proprio non è possibile dare una forma (de)finita al mondo, lo si può quantomeno riprendere e, con uno stile di ripresa che ne scuota l’immagine, metterne costantemente in dubbio l’autenticità. La lingua stessa è una cornice per la realtà nel momento in cui arricchiamo il nostro sguardo su di essa con una conversazione o, appunto, un’opera d’arte. Per Jafar Panahi il talking about è un ottimo modo per mettere in discussione l’esistenza.

Sebbene il regime iraniano sembri molto lontano, “Tre volti” offre uno sguardo sullo scontro tra modernità e tradizione.

Sebbene il regime iraniano sembri molto lontano, “Tre volti” offre uno sguardo sullo scontro tra modernità e tradizione. Lo stile mosca sul muro del film non è sconosciuto al dramma occidentale, ma gli conferisce comunque un’atmosfera intima e iperrealistica originale. Il contrasto tra vecchio e nuovo è ancora chiaramente visibile nonostante la messinscena criptica. Jafar Panahi guarda criticamente e apertamente alla società e, al contempo, ci mostra l’Iran dal punto di vista degli stessi iraniani. Il mondo persiano del film non è il deserto stereotipato di Hollywood pieno di terroristi barbuti e fondamentalisti folli che opprimono le donne. È una terra di storie di persone normali e insolite che cercano di trovare un proprio senso nel mondo moderno. Mentre cerchiamo di risolvere la trama della storia al seguito del regista, la vita vera interviene costantemente. Ecco perché guardare un film con lui è sempre più pericoloso di quanto si pensi.