Quella per la verità è una delle più antiche ossessioni del cinema. Fin dagli albori, questo ha tentato di replicare o, perlomeno, di rendersi simile all’oggetto su cui si posava il suo sguardo. Ma il tentativo di assottigliare la distanza tra realtà e finzione si rivelò ben presto una battaglia persa. Per anni teorici e artisti si sono scornati per individuare la natura e le future direzioni del mezzo. “Zombie contro Zombie” entra nel vivo di un dibattito vecchio un secolo, sfoggiando una tecnica raffinata e uno spiccato senso dell’umorismo. Il regista Shin’ichirô Ueda, al suo primo lungometraggio, ci parla di meta-cinema, di film nel film, e mette in scena tutte quelle dinamiche dietro le quinte che lo spettatore non è generalmente autorizzato ad esperire. Truccatori, produttori, macchinisti si trasformano in personaggi e il cinema fa mostra del suo artificio.
“Zombie contro Zombie” si veste di panni sgualciti e rattoppati, celando però una sceneggiatura incredibilmente sofisticata.
Non una pratica del tutto insolita. Si potrebbe affermare con certezza, infatti, che la meta-narrazione sia lo strumento più efficace per riflettere sulle proprie specificità artistiche. Uno spazio navigato dunque, che il film riesce ad esplorare in maniera innovativa e disinvolta. “Zombie contro Zombie” è un progetto a bassissimo costo, con un budget di appena 20’000 dollari racimolati grazie ad una campagna di crowdfunding. Anche dal punto di vista stilistico, il lungometraggio sembrerebbe collocarsi nel filone degli horror indipendenti, che hanno come capostipite contemporaneo il celebre “The Blair Witch Project” (1999). Macchina a mano, pianosequenza e luce naturale sono tutti elementi immediatamente riconoscibili, che tuttavia vanno a costituire solo il primo strato con cui lo spettatore entra in contatto. Insomma, “Zombie contro Zombie” si veste di panni sgualciti e rattoppati, celando però una sceneggiatura incredibilmente sofisticata.
Uno zombie sta per divorare una fanciulla giapponese che grida con voce stridula. Stop. Il regista passa davanti alla macchina da presa e interrompe la scena. In una fabbrica abbandonata si sta girando un film horror, ma le prestazioni degli attori non sono abbastanza credibili. La ragazza in particolare sembra non provare realmente terrore, e il capo del progetto cerca esattamente quello. Egli brama la verità sullo schermo. Ecco allora l’intuizione vincente. Perché non risvegliare davvero degli zombie? Non ci vuole neanche molta fatica: un simbolo maledetto dipinto col sangue e via, ben presto l’intera troupe si trova ad affrontare dei non morti vecchia maniera, lenti e stupidi. Sostanzialmente degli uomini barcollanti spruzzati di trucco e con le lenti a contatto. Nel mentre il regista, interpretato da Takayuki Hamatsu, cerca disperatamente di riprendere i suoi malcapitati colleghi, facendosi strada tra schizzi di sangue e teste mozzate.
“Zombie contro Zombie”, diffuso a livello internazionale con il più adatto titolo “One Cut of the Dead”, si può considerare molto vicino al sotto genere splatter.
Quelli ora descritti sono appena i primi 36 minuti del film, catturati tutti in un unico pianosequenza. Successivamente il racconto subisce una violenta sterzata, avvicinandosi ad altre strade formali e concettuali. È in questo momento che la riflessione meta-narrativa assume un altro valore. Trasformandosi da semplice espediente per far fronte al basso costo, ad una memorabile prova di sapienza e creatività cinematografica. Da questo punto di vista “Zombie contro Zombie”, diffuso a livello internazionale con il più adatto titolo “One Cut of the Dead”, si può considerare molto vicino al sotto genere splatter. Non solo per il largo impiego di sangue, ma soprattutto per l’estrema vivacità della storia e per i suoi toni marcatamente auto ironici.
Per tutta la durata del film, Shin’ichirô Ueda continuerà a svelare i trucchi della settima arte e a mostrare i suoi oggetti di scena. Dal tubo per far schizzare il sangue, al collirio utile a far lacrimare gli attori. L’opera assume così le sembianze di una grande celebrazione del fare cinema, con le sue ambizioni e i suoi limiti. Se nella prima parte i protagonisti invocano il raggiungimento della verità, nella seconda mostrano come le infiltrazioni del caso influenzino i piani produttivi prestabiliti. Proprio questa fase riserva allo spettatore la sorpresa decisiva, ribaltando tutte le storie già raccontate, esibendo ancora una volta il non visto, in un finale vagamente alla Night Shyamalan. Il bello di “Zombie contro Zombie” risiede nella sua capacità di rappresentare il cinema come un’arte accidentata, un artificio mai completamente governabile. E impiegando, allo stesso tempo, una precisione formale del tutto calcolata, per lo meno in apparenza.