È un fatto che negli ultimi anni il cinema sudamericano stia vivendo una stagione di grande rinascita. Non c’è competizione festivaliera che manchi di mettere nel proprio cartello una pellicola proveniente da un paese latino. E non si tratta, alla prova dello schermo, di film selezionati per riempire o per variegare il programma. Piuttosto ci si trova davanti pellicole che, ora più ora meno, esprimono realtà e tonalità cinematografiche nuove e affascinanti. E non disattende questa descrizione nemmeno l’eccellente film d’esordio del regista e sceneggiatore Marcelo Martinessi, “Le ereditiere”, in gara all’ultimo Festival del Cinema di Berlino. L’opera mette in scena una storia d’amore segreta ambientata tra la facoltosa gerontocrazia della capitale paraguayana.
Chela (Ana Brun) e Chiquita (Margarita Irun), ereditiere di famiglie benestanti di Asunción, in Paraguay, vivono in coppia da oltre trent’anni. Purtroppo, la loro situazione finanziaria è peggiorata e sono costrette a svendere l’eredità. Ma l’aggravarsi dei debiti porta Chiquita ad essere imprigionata con l’accusa di frode. A questo punto Chela si ritrova a dover affrontare una nuova realtà. Per la prima volta dopo anni riprende a guidare e inizia a fornire un servizio di taxi locale a un gruppo di signore anziane benestanti. Mentre si sta abituando alla sua nuova vita, Chela incontra Angy (Ana Ivanova Villagra), una donna molto più giovane con la quale instaura un nuovo tipo di legame. Chela finalmente inizia a emergere dal guscio protettivo nel quale è vissuta e ad impegnarsi con il mondo, intraprendendo la sua intima rivoluzione.
Attraverso un’intricata ma mai ostica polifonia tematica, Marcelo Martinessi esplora l’evoluzione di una de “Le ereditiere”.
Nonostante si tratti di un esordio registico, “Le ereditiere” si presenta come un’opera matura, organica e personale. Capace di coniugare squisitamente l’analisi dei personaggi con un commento accorto sulla gerarchia precaria, sulle distinzioni di classe, sulla turbolenta persistenza del desiderio sessuale e sui privilegi incessanti dell’élite del Paraguay. Attraverso un’intricata ma mai ostica polifonia tematica, Marcelo Martinessi esplora l’evoluzione di una delle sue protagoniste. La donna, anziana, lesbica e passiva, ha trascorso gli ultimi decenni rintanata in una liturgia isolata e stagnante e, improvvisamente, è costretta a fare i conti con l’assenza della compagna di una vita. A questa linea privata, la sceneggiatura affianca l’affresco pubblico sulla sorprendente disparità di classe in Paraguay, un paese in cui la mobilità economica è praticamente inesistente. Il modo in cui ci vengono presentate Chela e Chiquita, nel bel mezzo della svendita di pianoforti, orologi e posate, palesa metaforicamente l’architettura della loro relazione.
Le due donne sembrano essere cresciute come oggetti di antiquariato, costrette dall’abitudine a stare una accanto all’altra. La mancanza di intimità in Chela e la sua preferenza a rifugiarsi nella pittura ritraggono una donna che si è arresa alla propria condizione. Chiquita ha sempre provveduto alla sua compagna in tutto e per tutto. Ogni giorno, meticolosamente, le prepara accanto al letto un vassoio con caffè, acqua, pillole e altri effetti personali; la accompagna in giro perché Chela si rifiuta di guidare e si fa carico di tutti i loro problemi legali. La donna origlia il via vai di donne benestanti che vengono a ispezionare i suoi bicchieri di cristallo, i mobili antichi e i dipinti, ma sembra insensibile a tutto. Non si scuote davanti ai duri colpi che anche Chiquita sta subendo e si limita a demandare la sua responsabilità legale a un’amica.
Le donne di Marcelo Martinessi sono in qualche modo debitrici agli uomini per la loro stessa resilienza, per il loro status marginale.
A malapena comunica con Pati (Nilda Gonzales), la nuova cameriera di classe meno abbiente che Chiquita ha assunto per occuparsi di Chela quando sarà in carcere. Anche dopo che la compagna è andata via, Chela rimane intorpidita. Ma tutto ormai suona diverso. Il frenetico andirivieni delle acquirenti è finito, la casa sembra più cupa nonostante sia priva di anticaglie, i passi echeggiano forti nelle stanze e le macchie sbiadite dove una volta erano appesi i quadri campeggiano sui muri come spettri. Lentamente la donna inizia a svegliarsi dal sonno che l’aveva assuefatta. Sperimenta un diverso tipo di solidarietà femminile quando una vicina più anziana, Pituca (Maria Martins), spaventata dall’ondata di rapimenti in città, le chiede di accompagnarla alla partita settimanale di carte. Troppo impantanata nell’inerzia per inventare una scusa, Chela dopo anni si mette al volante della vecchia Mercedes del defunto padre, un altro dei tanti oggetti messi in vendita.
In poco tempo, la donna si ritrova ad accompagnare un nutrito gruppo di anziane giocatrici e comincia a crescere in lei la fiducia come tassista. Lavorare e provvedere a se stessa è qualcosa di così nuovo tanto da inebriarla. Ma il vero catalizzatore del cambiamento è la giovane Angy, la cui sensuale fisicità, la sicurezza e la freschezza con cui vive la propria esistenza esercitano su Chela un fascino magnetico irresistibile. Nell’evoluzione della nuova amicizia il regista evita percorsi prevedibili e grossolani, e la sensazione di qualcosa che si risveglia nella protagonista viene trasmessa da tocchi delicati. Il rovesciamento di un vassoio può finalmente essere perdonato. C’è spazio per momenti di tenerezza, specie nelle interazioni via via più compassionevoli con Pati, e emergono segni esteriori di rinascita personale, come una maggiore attenzione al proprio aspetto.
“Le ereditiere” coinvolge emotivamente agendo a livelli infinitesimali, attraverso una sofisticata raffigurazione dei personaggi e del contesto sociale.
Ma le epifanie piccole e meno vistose rimangono per lo più interiorizzate e il finale aperto de “Le ereditiere” punta a un futuro di luci e possibilità, rifiutando il bisogno di scandire tutto. Analogamente, l’interpretazione di Ana Brun, premiata come migliore attrice con l’Orso d’argento, esiste nei frammenti di dialogo e nelle espressioni facciali che costituiscono il nucleo emotivo di ogni scena. I suoi occhi sembrano cambiare colore a seconda degli stati d’animo. A chiunque la guardi Chela appare imperscrutabile. All’opposto, la sua attrazione per Angy è subito chiara e il modo in cui la cinepresa cattura le lievi sfumature delle espressioni facciali dell’attrice è memorabile.
“Le ereditiere” coinvolge emotivamente agendo a livelli infinitesimali, attraverso una sofisticata raffigurazione dei personaggi e del contesto sociale. Nel film gli uomini sono presenze del tutto marginali, raramente ascoltate, intraviste solo a distanza circospetta o evocate in riferimento a matrimoni e rapporti imperfetti. Tuttavia, è tacitamente palese che siano gli artefici di una storia nazionale fatta di sconvolgimenti politici, sociali ed economici. “Le ereditiere” in questo non è ipocrita, cosicché una verità scomoda e amara finisce per trasparire. Le donne di Marcelo Martinessi sono in qualche modo debitrici agli uomini per la loro stessa resilienza, per il loro status marginale, e per i vantaggi derivanti da questa subalternità. Tradizionalmente, esse hanno accettato di essere merce economica, evitando così qualsiasi compromissione e responsabilità nelle agitazioni politiche della nazione.