MUSTROW: "La musica era l’unica cosa che mi faceva stare veramente bene"
Fabio Garzia, in arte MustRow.
Fabio Garzia, in arte MustRow.

MUSTROW: “La musica era l’unica cosa che mi faceva stare veramente bene”

Fabio Garzia è un piacere averti su Music.it! Iniziamo col raccontare una curiosità su di te. Da cosa nasce la scelta del tuo nome d’arte, MustRow?

Se ci penso adesso dopo questi anni è una storia divertente. Di solito un artista si sceglie lo pseudonimo cercando di trovare una parola o una frase che rappresenti il progetto, a me invece è caduto addosso dal nulla. I miei amici mi hanno sempre soprannominato Mastro, ormai sono anni che mi sembra strano essere chiamato Fabio. Un giorno una mia amica americana quando gli dissi il mio soprannome mi rispose: «Must Row?», e dopo una serie di botta e risposta alla Totò e Peppino passammo a carta e penna, lei lo scrisse, quando lo vidi scritto e capii il significato me lo sentii subito addosso.

Ovvero?

I must row significa devo remare, e ha un significato che secondo me riassume perfettamente il percorso che ogni artista deve fare agli inizi per uscire fuori. Potremmo tradurlo nel nostro romano: «tocca trottà». Nella mia storia musicale è sempre stato così, non è mai stato facile e continuo a vivere di sogni e porte socchiuse da cui poter sbirciare ogni tanto ma non troppo.

“Sugar Baby” è il tuo ultimo album, parlami di questo lavoro.

È un po’ lunga da spiegare, devo tornare parecchio indietro nel tempo per spiegarlo.
Quando a 14 anni ho iniziato a suonare la chitarra, l’ho fatto per amore della musica, perché ero innamorato di grandi artisti e volevo avere una mia voce che mi permettesse di essere me stesso al 100%. Sono sempre stato il sovversivo della classe al liceo, quello che stava al banco da solo e anche molto timido in realtà: la musica era l’unica cosa che mi faceva stare veramente bene.
Smisi anche di giocare a basket perché continuavo a tornare a casa con polsi doloranti e dita insaccate e non potevo prendere in mano la chitarra e suonare. Quando iniziai a lavorare con la musica, come turnista, iniziai a perdere quella spontaneità, quella voce che non ti faceva dormire la notte.

Non ti dava soddisfazioni?

Scrivevo musica per compiacere la corrente musicale mainstream, poi mi sono reso conto che non ero più io e ho deciso di fare un album senza compromessi, con quello che più mi piace e che più mi rappresenta. Quindi me lo sono fatto da solo perché altrimenti avrei avuto la vocina di qualcuno che mi diceva: «Eh, ma il ritornello non espolode», o «Questa le radio non la passeranno mai».
Poi una volta finito il disco ho conosciuto un editore, Thaurus Publishing, che ha creduto in me e ha finanziato il video di “Stand the Line” e il mix e mastering del brano con Marco Schietroma.
Lui non ha mai detto una parola su quello che avrei dovuto fare e di questo gli sono grato, per il resto è tutto registrato e mixato in home recording. Ovviamente con l’aiuto di alcuni amici musicisti che mi seguono da anni che sono: Gabriele Greco (basso), Daniele Massidda (batteria) e Andrea Sedran che ha fatto i mastering di tutti gli altri brani.

Il tuo disco non ha un’identità ben precisa, sono vari i generi che mescoli. Quale pensi sia il genere nel quale esprimi meglio le tue potenzialità artistiche?

Non penso che si possa dire che non ha un identità. Questo disco è il mio modo di vedere e sentire il rock e la musica blues in tutte le sue sfaccettature. Sono anni ormai che i vari generi musicali si mescolano fra loro, a me sono sempre piaciuti i dischi in cui potevo percepire più mondi che ruotavano attorno all’artista, in cui potevo riflettere sulla parte più intima o scapricciare sul brano più rock. Penso che ognuno di noi abbia più personalità dentro di se, a volte estremamente contrastanti fra loro ma che insieme si collimano armoniosamente. La nostra individualità è data proprio da questo. Ogni personalità, che sia artistica o no, racchiude tanti mondi diversi.
Io non credo di avere una forte predisposizione per il rock ma allo stesso tempo mi trovo estremamente a mio agio nel folk e nel country. La mia identità è questa e quindi il mio primo disco non poteva essere diverso.

“Let it fall” ha un sound delicato e introspettivo. “Stand the line” ha sonorità più decise e rock. MustRow è così anche nella vita?

Assolutamente sì, come ti dicevo ognuno ha diverse personalità dentro di sé, io sono una persona molto sensibile e introspettiva. A volte anche timida, ma ho un carattere forte e testardo. Inoltre sono in un continuo stato altalenante fra la riflessività e irresponsabilità. C’è chi mi ha dato del bipolare in passato, insomma sono un completo casino.

Nello scrivere canzoni, riporti esperienze personali?

Tutto il disco è per così dire in prima persona da “Stand the line” a “Let it fall” parlo di me o di cose che mi sono accadute. “Stand the line” è il racconto di una serata un po’ sregolata del quale ho raccontato solo quello che mi ricordavo, ma ho dei vuoti di memoria assurdi riguardo quella notte.
Sai quante volte mi sono svegliato la mattina e mi sono chiesto: «Ma a casa come ci sono tornato?»
In questo disco ho raccontato due fasi della mia vita che hanno un arco di circa 10 anni.

Ad esempio?

“Puppet’s love” ha segnato il mio risveglio da una relazione in cui non potevo essere me stesso, in cui questa ragazza mi disegnava addosso l’immagine del suo uomo ideale, ho sempre sofferto di questa cosa e credo che ognuno di noi debba essere accettato per quello che è e non per quello che ci si aspetta.
La frase che ha più rabbia in quella canzone è «You dress me with your daddy clothes» (Mi vesti con i panni di tuo padre, ndR) e riassume perfettamente quello che ho passato in quel periodo. Per fortuna ne sono uscito.
Si può dire che questo disco è diviso in due parti. Una quella della rabbia, il rancore e l’autodistruzione che ne consegue e l’altra il risveglio, il cambiamento, quando qualcosa improvvisamente riaccende la luce nella tua vita e sei di nuovo te stesso. E che fai? Scrivi un disco, no?

La musica è sempre stata la tua strada? O da bambino sognavi di intraprendere una carriera diversa?

Quando sei bambino non capisci nulla di queste cose ed è bellissimo, non ti preoccupi di cosa accadrà ma solo se mamma all’uscita da scuola ti porterà a mangiare la pizza o se papà tornerà dal lavoro per il fine settimana. Io avevo mamma che faceva la professoressa di matematica e papà che lavorava come assistente di volo. Ricordo che da piccolo mi sarebbe piaciuto fare il lavoro di papà ma non ci pensavo molto. Le mie più grandi passioni erano il disegno e il basket, ma ogni volta che passavo davanti ad una chitarra o la sentivo suonare da qualcuno rimanevo estasiato.
Appena iniziai a suonarla per me fu amore a prima vista e non ho mai voluto fare altro, ho sempre saputo che sarebbe stato difficile ma era più forte di me, dovevo suonare e ho continuato e continuerò fino alla fine. La musica è la mia vita.

Tuo padre è anche un musicista, come te. È stato lui ad introdurti in questo mondo?

Ricordo che a 10 anni passavo ore con gli amici di mio padre che insieme a lui improvvisavano delle jam session acustiche a casa dopo cena e io ascoltavo papà. Ma anche Angelo, lo Stevie Ray Vaughan dei suoi amici, e Franco che suonava solo Robert Johnson. Se gli facevi fare altro non era capace! Ma sullo stile blues roots non aveva eguali. Io rubavo con gli occhi e con le orecchie, imparavo a memoria canzoni di cui non sapevo neanche il nome solo ascoltandole. E poi anni dopo mi trovavo a scoprire di conoscere già le parti di chitarra di “Tears in Heaven” di Eric Clapton senza averla mai studiata.

Quindi ha influenzato anche i tuoi ascolti?

Papà quando tornava dal lavoro si chiudeva nel suo studio a suonare, e io entravo sempre ad ascoltarlo. Devo a lui se ho scoperto il rock, il blues, il folk, perché in questo paese non è che siano mai stati generi tanto mainstream. I miei amici ascoltavano musica da discoteca, io mi chiudevo in camera ad ascoltare i Led Zeppelin.
Sono figlio di mio padre per quanto riguarda la musica, lui ha dato il la, io poi ho continuato da solo e ho scoperto tantissime cose, ma sicuramente è stato fondamentale per la mia crescita artistica

Pensi che canterai mai in italiano?

Sono stato bravo a cancellare le prove, eh? Tu forse non lo sai ma anni fa feci un EP in italiano, se cerchi bene lo trovi. Ho scritto tante canzoni in italiano, non so se mai le registrerò, per ora sono a posto così. Questo album (qui la recensione) è venuto da solo, senza forzature o aspettative. Volevo qualcosa che mi rappresentasse appieno e che avesse quel sound sia a livello musicale che di linguaggio.

La nostra intervista volge al termine. Commenta a ruota libera ciò che vuoi. Grazie, ciao!

Ambarabà ciccì coccò, tre galline sul comò. Trentatre trentini entrarono a Trento tutti e trentatre biascicando perché erano tutti ubriachi, e iniziarono a cantare in coro “La Cucaracha”.

https://youtu.be/dVhfdHWWcXA