Cecilia D’Amico porta in scena il suo terzo spettacolo comico, dopo “Vaga Show” del 2014 e “Underwood” del 2016. In “Ora et la Bora”, la protagonista vorrebbe fuggire da una frequentatissima e caotica palestra, un luogo ben lontano dalla sua natura calma e mite, ma senza risultati. Così è costretta a tornarvi e ritornarvi a causa di una società che non le lascia alternative. La palestra, “luogo di mamme e di bambini, di vecchie coi calzini”, ci mostra l’aspetto benevolo e allo stesso tempo disturbato, finto e ossessivo dei suoi frequentatori, “ragazze anoressiche, uomini pompati…”.
Il sipario si apre su un palco scenografato con dei parallelepipedi multicolori e lucidi e che diventa, nel corso della pièce, il tetris in cui Cecilia D’Amico si muove e dà vita alla sua miriade di personaggi. Ogni postazione in “Ora et la Bora” rappresenta una situazione diversa in cui uno o più personaggi agiscono. Uno dei talenti dell’attrice è quello di far dialogare abilmente più personaggi, due, tre o ben quattro alla volta, sapendo diversificarli in modo netto e riconoscibile.
Il giocare di Cecilia D’Amico è arguto e intelligente. Il suo modo di deridere non è mai scontato, banale, superficiale.
Cecilia D’Amico si muove sul palco come fosse il suo parco giochi del cuore, con un’energia esplosiva e traboccante, una grinta inesauribile e una serietà nel lavorare fino in fondo. L’interprete tocca molte tematiche attuali di cui sentiamo sia parlare che ironizzare puntualmente. Ma, a differenza dei più, il suo modo di deridere non è mai scontato, banale, superficiale. Il giocare di Cecilia D’Amico è arguto e intelligente.
Non è da meno la dote autoriale che le ha permesso la creazione di personaggi variegati e dettagliati. L’intreccio di storie e legami che si sviluppa durante la messa in scena di “Ora et la Bora” è sorprendente. Niente è casuale, ogni personaggio è collegato ad un altro per vie che solo un’ingegnosa fantasia poteva immaginare.
L’intreccio di storie e legami che si sviluppa durante la messa in scena di “Ora et la Bora” è sorprendente.
Il luogo che accomuna, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi è “Ora et La Bora”, un covo di persone esaurite, esaltate e autoreferenziali. La palestra non è più uno spazio in cui ci si può fisicamente sfogare o in cui ci si può prendere cura di sé stessi in modo sano. Al contrario, è un ritrovo di frustrati e isterici.
I corsi si trasformano in lezioni folli e sfrenate in cui si esce dalla sala più stressati di quando si è entrati. La colonna sonora è composta da grida, fatte con indosso gli auricolari dei propri smartphone. Segno di noncuranza verso chi sta accanto. Ognuno è chiuso nel proprio mondo, e anche la palestra non è più un luogo sociale in cui scambiare almeno due chiacchiere con il proprio “vicino di attrezzi”.
Degna di nota è la storia del vecchio professore di 110 anni che non riesce ad andare in pensione, nonostante l’età molto avanzata e una chiara demenza senile. Dopo l’ultimo trasferimento in una sperduta provincia del Lazio, l’insegnante non fa che chiedere ai propri studenti dove si trovi l’INPS della città. L’INPS diventa un mantra malato e ossessivo di una società e di un paese di disoccupati e di lavoratori in età, da un pezzo, pensionabile.