Ho l’abitudine, solo mia o forse no, di non leggere nulla su ciò che mi propongo di andare a vedere a teatro. Mi piace essere travolta dallo spettacolo. Le anticipazioni creano aspettative, e detesto che vengano disattese. Faccenda totalmente diversa è riflettere sulla parola “Ossesso”, che poi è il titolo dello spettacolo finalista del concorso #inplatea 2018, ospitato dal Teatro Trastevere. “Ossesso” rimanda etimologicamente all’essere abitato, assediato da qualcuno. Credo che non sia solo per assonanza che l’ossessione possa essere legata al sesso. Non è solo la ripetizione di una parte della parola che aiuta il regista e autore Federico Maria Giansanti a far slittare il significato di “Ossesso” dallo spirito al corpo.
Sull’ambivalenza si costruisce l’intera scrittura di “Ossesso”.
Ed è ancora sull’ambivalenza che si costruisce l’intera scrittura di “Ossesso”. Transita dall’oscillazione dicotomica tra spirito e corpo su cui si gioca la possessione demoniaca, per arrivare al tono della parola enunciata. Un’intera pièce composta e modellata sulla forma e sul contesto. Le parole scritte su un foglio assumono il significato che uno vuol dargli. Sono davvero solo inchiostro, solo vuoto fiato se lette in monastica solitudine. È la circostanza che sceglie il timbro della parola emessa, per cui rimane sottopelle in maniere differenti. La situazione è l’ago che serve per imprimere il tatuaggio: se non è sterilizzato presto o tardi farà male. Eppure nello spettacolo di Federico Maria Giansanti non sono tante le parole a essere dette. Molte di esse, peraltro, si sono perse nel tragitto tra la bocca degli attori e le orecchie della platea.
Con uno stile minimale ed essenziale dal punto di vista della scrittura, le parole pronunciate risultano fondamentali per lo snodarsi della storia. Non sarebbe neanche un peccato se gli eventi fossero veicolati e suggeriti dai corpi degli attori che si tendono per spiegare la relazione che intercorre tra i personaggi. Sono piuttosto le musiche, le luci e un inserto cinematografico – “Gioventù perduta” di Pietro Germi – a svolgere questa funzione. Spesso hanno sopperito a vuoti drammaturgici e alle prestazioni attoriali. C’è un trauma a dividere la dialettica antitetica e impossibile da sanare tra i due poli drammaturgici in cui “Ossesso” si spiega e si ripiega su se stesso. Dunque c’è un significato molto diverso dal beckettiano “Aspettando Godot”, in cui i due atti apparentemente identici non trovano punto di aggancio l’uno con l’altro.
“Ossesso” si spiega e si ripiega su se stesso.
Ma una volta chiusa la riflessione sull’origine del significato di ogni scambio dialogico, resta la domanda sulla scelta dell’oggetto. Chiara e Francesco sono una normale coppia di innamorati. Tanto normali da essere mediocri, perché le evoluzioni delle rispettive individualità sono psicologicamente prevedibilissime. Abbiamo una studentessa frivola e frizzante (Margherita Carducci) e un giovane lavoratore stakanovista (Lorenzo Scalzo). Vanno a convivere, scontrandosi inevitabilmente con la monotonia della quotidianità. Bisogna avere fegato per sostenere il trascorrere del tempo nella permanenza di determinate condizioni. C’è denuncia della mancanza di coraggio di promettersi ogni giorno di stare insieme nell’ordinario, perché nello straordinario siamo tutti bravi. Ma di quale quotidiano si sta parlando?
Non riesco a capire la normalità nei personaggi di “Ossesso”. È una normalità che, almeno in teoria, non è sentita più come propria dai millenials, categoria sociologica che arriva a includere persino chi è nato agli inizi degli anni ’80. La riflessione sull’ambivalenza semantica delle parole che i partner si scambiano è ostacolata dalla compresenza di alcuni anacronismi in scena. Ci sono due universi a scontrarsi in “Ossesso”. C’è una relazione dal sapore antiquato per quanto riguarda i ruoli sociali ed economici rivestiti da Chiara e Francesco. E poi c’è un modo assolutamente attuale e contemporaneo, seppur superficiale, di vivere il sesso. La sensualità è stata resa in modo sfacciato e volgare. L’unica punta di autenticità è raggiunta nella seconda parte, nell’involuzione del rapporto.
Ci sono due universi a scontrarsi in “Ossesso”.
Senza parlare dell’altro luogo comune che Federico Maria Giansanti mette in scena: chi è a casa non può che annoiarsi. L’unica via di fuga da una solitaria routine opprimente è il rifugio in uno svago dal sapore adolescenziale. È chiaro che persino la probabile sottile vendetta perpetrata dalla parte lesa venga percepita come inevitabile e persino giusta. Uno si spacca la schiena per portare la pagnotta a casa e poi viene ripagato con infedeltà? Confinare la vena sadica in una legge del taglione è il minore dei mali. Farla sfociare in prevaricazione fisica, con tutta la sensualità del caso che attorialmente è stata portata in scena, è inaccettabile.
Ma l’importante è che uno spettacolo faccia discutere. E questo può avvenire solo quando si lascia al pubblico il compito molto difficile di scegliere autonomamente una chiave di lettura. A me piace pensare che il copione e la drammaturgia di “Ossesso” debbano essere approfonditi e sviluppati. Mi piace pensare che “Ossesso” sia un tentativo di avvicinare il tema ostico della comunicazione, calato all’interno di una relazione amorosa. E probabilmente questa è la ragione per cui è stato calorosamente premiato dalla platea. Ma credo che il tentativo di Federico Maria Giansanti si sia arenato su stereotipi e cliché che, francamente, hanno annoiato e seccato a sufficienza.