Diamo il benvenuto a Fabrizio Cammarata su Music.it! La nostra usanza è chiedere agli artisti un aneddoto musicale che non hanno mai rivelato ad anima viva. Fabrizio ce ne racconti uno?
Wow! Dovrei pensarci un po’. Anche perché tendo a non avere segreti, soprattutto con gli amici. A parte tutte quelle cose pazzesche in stile “Spinal Tap” che succedono quando fai una gavetta lunga, come ho fatto io in giro per il mondo, mi vengono in mente tutte le volte che ho composto canzoni dedicandole a qualcuno. Ho iniziato a scrivere perché non avevo il coraggio di parlare con le ragazze. E quindi mi succedeva da giovanissimo di fare canzoni che erano come delle lettere d’amore. La cosa buffa è che poi non dicevo alla persona interessata che quel brano, o magari un intero disco, era dedicato a lei!
Eri giovane, appunto.
Non ho avuto mai il coraggio di dirlo neanche da grande! Ci sono delle canzoni che ho scritto che penso siano molto belle e ispirate. Ovviamente gli innamoramenti sono passati. Con qualche musa a volte siamo diventati amici. Ma non sono mai riuscito a dire alle dirette interessate che avevano ispirato questa o quella canzone.
Con il tuo ormai penultimo album “Of Shadows” hai festeggiato 10 anni di carriera ufficiale, iniziata con i The Second Grace. Avresti mai immaginato tutto quello che è successo in questo decennio?
Assolutamente no! Quando ho iniziato non avevo minimamente idea di cosa significasse fare carriera nella musica. Mi affidavo semplicemente a delle sensazioni e al bisogno di esprimermi che era diventato quasi fisiologico. Come ti dicevo ero troppo timido per esprimere i miei sentimenti, e allora mi mettevo a scrivere. Questa cosa non l’ho mai persa nemmeno quando è diventato il mio mestiere. Non ragionavo su dove mi avrebbero portato certi miei passi. Non mi chiedevo nemmeno dove stavo andando. Però sapevo che era la strada giusta.
Da cosa lo capivi?
Anzitutto era la cosa giusta per me. Scrivere è un bisogno. È qualcosa che devo fare. Potrei anche fare altro nella vita, e non campare di questo. Ma sentirei comunque la necessità di farlo. E questa urgenza già basta per farmi capire che sono sulla strada giusta. Ogni volta che scrivo una canzone mi sento una persona più completa.
E poi da subito hai ricevuto ottimi feedback da pubblico, critica e addetti ai lavori.
L’unica qualità che penso di avere è la sincerità. E porto in musica questo aspetto di me. Non penso di scrivere grandi canzoni, però sono tutte vere. Sono tutte fondamentali e tutte necessarie per me. E forse questa cosa traspare durante l’ascolto. Si sente che non c’è nulla di costruito in quello che faccio, ma è semplicemente il risultato di un bisogno puro. Chi nella musica cerca questo tipo di sincerità, lo riconosce nelle mie canzoni. Sono vere.
Prima di parlare del futuro, facciamo un piccolo salto indietro. Parlo della collaborazione con Dimartino. Com’è nata?
Dimartino è uno dei miei migliori amici da tantissimi anni. Prima ancora di essere colleghi, siamo due persone che si scelgono a vicenda quando sentono il bisogno di staccare e andare a bere una birra. E questo a prescindere da avere in comune la musica, di essere entrambi cantautori. Anche lui è una persona molto sincera, diretta.
Cosa è scattato nella testa di Fabrizio Cammarata e Dimartino quando hanno deciso di fare un progetto su Chavela Vargas?
Sono innamorato di Chavela Vargas da tanto tempo. L’ho incontrata sulla via di Damasco. O meglio del Messico. Stavo passeggiando lì e ho sentito un artista di strada cantare una canzone che non conoscevo, ma che mi ha colpito subito. Era “La Llorona”. Sono rimasto congelato di fronte alle sue parole, così semplici e così pesanti. Ogni parola era un macigno. È una canzone d’amore e piena di morte. Ho sentito un richiamo che mi legava a chissà quale vita precedente. Penso che abbia a che fare con la mia provenienza. Sono di Palermo. Anche nella mia città amore e morte si abbracciano continuamente. Non ho inventato questo filo tra Messico e Palermo tanto per raccontare qualcosa. Questo legame c’è ed è molto forte.
Spiegami meglio.
Sono luoghi che hanno due storie parallele. Ma le direttive sono molto simili. Ho riconosciuto questa canzone dentro di me, ed è partita la mia ossessione per “La Llorona”, che poi è una canzone che faccio in tutti i miei live. E ho scoperto che l’interprete più famosa di questo brano tradizionale era Chavela Vargas, ed è nato un grande amore anche per lei. Così l’ho contagiato al mio amico Dimartino. E abbiamo deciso di fare un bel viaggio in Messico, sulle tracce di questa cantante, che in Italia era quasi sconosciuta. E a lui è venuta quest’idea fantastica di tradurre il repertorio di Chavela Vargas in italiano. Abbiamo iniziato a farlo negli alberghi, e ci siamo messi in testa di contattare i musicisti che suonavano con lei, Los Macorinos.
Siete riusciti nell’impresa?
Siamo riusciti con delle coincidenze che sembrano venute dal cielo. Siamo riusciti a trovarli e siamo entrati in studio a registrare queste canzoni con loro. È una delle cose più belle che abbia mai fatto. Proprio per la bellezza che io ho ricevuto da questa esperienza. È stato tutto al contempo imprevisto e semplice. Come se Chavela Vargas fosse lì, a tessere le fila di questo incontro improbabile tra Palermo e lei.
E da lì è nato “Un Mondo Raro”. Molto più di un album.
Un disco, un romanzo e uno spettacolo. Io e Dimartino non abbiamo fatto altro che lasciarci condurre in questa serie di eventi che sembravano scritti per noi. Come se qualcuno volesse renderci le cose facili dall’alto. Abbiamo iniziato a conoscere le persone più vicine a Chavela Vargas: i suoi migliori amici, i suoi musicisti e tante persone che l’avevano incontrata. Il disco non ci bastava più. Abbiamo capito che la forma più adeguata a raccontare una vita straordinaria era quella di un romanzo. Così abbiamo scritto “Un mondo raro. Vita e incanto di Chavela Vargas”, edito da La Nave di Teseo.
E l’avete portato a teatro.
Nello spettacolo il filo tra Palermo e il Messico è ancora più forte. Abbiamo usato dei pupi siciliani per rappresentare Chavela Vargas, Frida Khalo e tutti gli altri personaggi. Il teatro è stata la sintesi perfetta di ciò che abbiamo creato. Ci ha dato modo di raccontare attraverso immagini, suoni e parole questa storia.
Quando hai capito che avresti dovuto cercare l’ispirazione proprio in Messico?
Il primo viaggio non l’ho fatto con l’intenzione di cercare nuove storie. Sono andato lì semplicemente per visitare un posto nuovo, un posto bello. E come ti dicevo sono rimasto folgorato da “La Llorona”. È diventata un’ossessione, che mi ha spinto a informarmi e studiare sempre di più. Non avevo la pretesa di fare una ricerca accademica sulla musica e il folklore messicani. Sentivo che quel posto mi chiamava, continuamente. A intermittenza di qualche mese mi voleva là, aveva qualcosa di nuovo da dirmi per farmi capire questo mistero. Il mistero laico di amore e morte che si abbracciano. Ogni volta che vado in Messico mi sento a casa.
C’è un po’ di Palermo in Messico, insomma.
I messicani sono molto simili ai palermitani per la capacità di familiarizzare con concetti che altrove sono tabù. Come quello della morte. Abbiamo ben presente cosa significhi. Chi è nato nella Sicilia degli anni ’80, come me, ha visto la morte continuamente, anche da bambino, per strada, violenta. Hai bisogno di farci i conti. E tutto sommato capisci che è solo l’altra faccia della vita. Quasi per ingraziartela, per riappacificarti con lei ed esorcizzarla, cerchi di instaurarci un rapporto. Inizi a pensarci quotidianamente e finisci per pensare alla morte con un sorriso. I messicani scherzano molto con la morte e con tutti i personaggi legati a lei, come la Llorona appunto.
Effettivamente il culto della Santa Muerte è particolarmente sentito proprio dove la criminalità organizzata è più presente.
Il culto della morte attecchisce dove la vita vale meno. E non c’è dubbio che, soprattutto nell’ultimo decennio, la vita in Messico abbia iniziato a valere sempre meno. Proprio come accadeva nella Palermo degli anni ’80. Devi imparare a familiarizzare con questo concetto proprio per non esserne sorpreso.
Ma dopo aver parlato di così tante ombre, arriviamo al tuo nuovo disco, “Lights”. Uscirà venerdì e si tratta di un lavoro molto particolare per te.
Sì, “Lights” è diverso da ogni cosa che ho fatto prima. Già dal titolo si capisce che l’ho pensato per fare da contraltare al precedente. “Of Shadows” mi è costato tanto tempo, tanto sforzo, tanti sacrifici intimi. Era una ricerca sulle ombre della mia anima, e di quella dell’umanità intera, perché poi ciò che faccio ha poco a che fare con il raccontare me stesso. Sono molto legato al concetto di empatia. Voglio che arrivino le mie emozioni al pubblico. Mi piace tirare fuori dalla propria zona di comfort chi mi ascolta. Ci ho messo quasi 5 anni a far uscire l’album, ed è stato un percorso molto accidentato. Ma mentre lavoravo a “Of Shadows” sapevo già che ci sarebbe stato un “Lights” dopo. Avevo tante canzoni malinconiche e introspettive, e sapevo che avrei avuto bisogno di tirare fuori qualcosa di diverso.
Qualcosa che si avvicinasse a un altro lato di te?
Ho un’anima molto più solare di quello che si sente nelle mie canzoni. Amo il surf, sono davvero un tipo da spiaggia. Avevo in mente un tipo di album che potesse essere più leggero, più legato alla mia parte più luminosa. Avevo tante canzoni, quasi spensierate, e l’anno scorso ero in un periodo particolarmente felice della mia vita. Tutto stava andando per il verso giusto. Ma un certo punto c’è stato un cambiamento improvviso, e a due settimane dall’ingresso in studio mi son reso conto che registrare quelle canzoni sarebbe stato come raccontare una menzogna. Avrei fatto qualcosa che non mi rappresentava più, perché la felicità era svanita di colpo. Avevo bisogno di riflettere, di pormi delle domande troppo importanti e profonde per essere affrontate con leggerezza. La musica è un’autoterapia, e non essere onesto mi avrebbe fatto del male. Ho deciso di cambiare tutto.
Tutto ciò a due settimane dall’ingresso in studio?
Sì! Era tutto pronto. Il produttore e i musicisti conoscevano le 20 canzoni che avevo preparato. Avevamo impostato tutto il lavoro su quelle. Ho detto loro: «Ragazzi, non facciamo più quelle canzoni». Mi hanno risposto: «Ok, quali facciamo allora? Mandacele, fra poco entriamo in studio». Ma non avevo niente! Ho cestinato 20 demo a favore di nulla in quel momento. Mi stavo prendendo una responsabilità molto seria. Ho fatto di tutto per ascoltarmi, per mettermi in contatto con me stesso. Ho scritto un po’ di cose in pochi giorni, e son entrato in studio con quasi nulla – due canzoni pronte e qualche idea. In sala ho condiviso con i ragazzi i motivi per cui la mia vita era cambiata, cercando di farli entrare in risonanza con ciò che ero in quel momento. E l’album è nato in maniera spontanea e improvvisa, come non era mai successo nella mia carriera.
La fretta quindi non è sempre una cattiva consigliera.
È stato molto rischioso. Ma è anche il disco di cui sono più soddisfatto! Oggi lo ascolto e penso di aver fatto un ottimo lavoro, se non altro perché sono riuscito a fare la fotografia di quel momento. Ed era un momento che non era triste, non era felice, non era malinconico, non era buio, non era spensierato, non era solare. Era qualcos’altro che so che il disco rappresenta perfettamente.«È molto più facile muoversi veloce per avere l’illusione del rinnovamento ed è molto più difficile rimanere fermi e ascoltare il nostro animo». Forse è la frase che racchiude megli quest’esperienza. È la frase che ha ispirato il singolo “Run Run Run”. Corri, corri, corri, ma non è un invito a correre. Anzi, vuole proprio dire a chi ascolta di fermarsi. Se non ti fermi non ti riconosci più.
Altra chicca di quest’album è “Cassiopea”, dove finalmente ti sentiamo in un ritornello in italiano.
Io non ho nessun tipo di controllo sul mio processo creativo. Ogni volta penso che la canzone che ho appena scritto potrebbe essere l’ultima di tutta la mia vita, e potrei non riuscire più a concepire qualcosa di decente. Vivo con quest’ansia. Ma è più forte di me! È come se avessi un principale. Sono un impiegato di questa sensazione e non so mai quando mi licenzieranno. Eseguo degli ordini. In quel momento mi è venuto così naturale scrivere un ritornello in italiano e l’ho fatto. A posteriori penso che “Cassiopea” abbia due facce, e forse alternare italiano e inglese è servito proprio a giocare con luci e ombre, con lo ying e lo yang.
E il tuo produttore, nonostante tutto, si è sempre fidato di te?
Con Dani Castelar (che ha lavorato, fra gli altri, con R.E.M., Paolo Nutini, Editors, Snow Patrol, Tarja Turunen, ndR) avevo già lavorato a “Of Shadows”, anche se in quel caso è entrato in corsa, con le canzoni già pronte. Con “Lights” invece ha fatto parte della squadra dal primo momento, da quando appunto le canzoni non esistevano. Questo processo creativo ha innescato una sinergia con lui e gli altri ragazzi della band. Mi son trovato a lavorare con lui in totale serenità. Come tutti i grandi, sa ascoltare. Ho avuto modo di conoscere tanti big, e tutti hanno in comune la predisposizione all’ascolto. La capacità di essere se stessi e anche l’altro. Una cosa che ho scoperto anche in Damien Rice, a cui ho raccontato un sacco di cose molto personali!
Non tutti parlano dei propri produttori, di questa figura mitica che non è ben chiaro cosa faccia e quanto influisca su un album.
Ci sono tanti tipi di produttori. C’è quello che sa come ottenere un suono pazzesca, posizionando i microfoni perfettamente, e c’è quello che interviene direttamente sull’arrangiamento. Poi ci sono quei produttori che sanno davvero ascoltare, che si mettono a tavolino cercando di capire cosa cerca di dire il brano. È come se la canzone stesse dentro una teca di vetro, battendo i pugni per cercare qualcuno che la aiuti a comunicare e a farla diventare concreta. Dani Castelar riesce esattamente a fare questo.
Chi hai ascoltato durante questo processo creativo? Chi c’era nella tua playlist?
Un artista che penso farà il botto molto presto. Ancora non è molto conosciuto. Si chiama Bruno Major. È inglese e fa soul minimale. Assolutamente consigliato. Poi ascolto molto The National, sono la mia band preferita. Poi c’è una canzone in particolare che ho riesumato, di Peter Gabriel. Tantissime persone, già dal primo disco, mi hanno accostato a lui per la vocalità. È molto strano, perché lo conosco poco. Però forse c’è qualcosa che nel suono della voce ci accomuna. Io non l’avrei mai detto, ma a cadenza regolare qualcuno cerca di farmelo notare. Però c’è una sua canzone che amo tantissimo e conosco da tanti anni. Mi ha guidato per la stesura di “Lights” perché parla di unione. Si intitola “Blood of Eden”. Con un linguaggio quasi biblico parla dell’unione fra uomo e donna, e per tutto il tempo delle registrazioni l’ho usata come un mantra.
Cosa vorresti lasciare ai tuoi ascoltatori?
Non so bene quali siano i punti di forza o di debolezza di quello che faccio. Ciò che mi guida è il bisogno di esprimermi e di far immedesimare gli altri in ciò che faccio. Proprio stasera a Milano, all’Apollo Club, farò un reading su un argomento che mi sta molto a cuore. “Empatia e duende. Storie e misteri della trasmissione dell’arte”, questo è il titolo. Parlerò di ciò che mi piace fare grazie all’organizzazione di We Reading, cioè creare un cortocircuito fra me e lo spettatore. Quando qualcuno ascolta la mia musica e mi dice che l’ha trovata rilassante, per me non è un complimento. A me piace buttare fuori dalla comfort zone l’ascoltatore. Buttarlo nell’acqua gelida per vedere cosa fa per salvarsi.
Un’immagine un po’ sadica.
Mi piace smuovere qualcosa nell’anima di chi mi ascolta. È una cosa che ho imparato da Chavela Vargas, o che comunque desidero fare da quando ho scoperto lei. Si tratta quasi di un rito sciamanico. O di catarsi, non so spiegarlo bene. A volte succede, il pubblico me lo dice. Non so bene cosa lo provochi. Ma mi fa piacere. Non potrei mai scrivere un inno generazionale o una canzone inclusiva. Per me la musica nasce come sfogo personale, individualista ed egoista se vogliamo. Che poi va a scontrarsi o entrare in sintonia con l’ascoltatore.
E a proposito di ascoltatori, sei tornato il mese scorso da un tour che ha toccato tanti paesi. Che differenza c’è fra il tuo pubblico italiano e quello straniero?
Ogni regione ha una psicologia propria. Ci sono luoghi in cui c’è più attenzione al testo, come i paesi anglofoni e la Germania, e altri più istintivi, come la Spagna e l’Italia. Sono arrivato a un punto della carriera in cui sono molto soddisfatto delle situazioni in cui mi esibisco. Ora ho la fortuna di farlo sempre davanti alla gente giusta, interessata a quello che faccio. Anche se i live club sembrano tutti uguali in ogni parte del mondo, con la stessa forma, la stessa luce, gli stessi cocktail al bancone, il mio è un viaggio continuo. Alla scoperta di nuovi ascoltatori e nuove reazioni alla mia musica. Ed è ciò che preferisco di più della musica.
E tu ti senti diverso quando suoni in diverse città? Ti poni diversamente?
Quando suono a Palermo è diverso. La mia città è come una mamma. Una madre llorona che ti ama ma potrebbe ucciderti in qualsiasi momento. Potrebbe improvvisamente impazzire e rinnegarti. È un rapporto psicologicamente molto tormentato, molto forte e potente. C’è Palermo da un lato e tutto il mondo dall’altro per quanto mi riguarda. C’è una comunità, una scena, nel centro storico, composta da artisti di ogni disciplina che girano il mondo e poi tornano qua. Ci conosciamo tutti. Suonare a Palermo significa tornare in un piccolo mondo dove posso confrontarmi con tutte queste persone, che sanno tutto di me. È un’emozione molto diversa. E poi quando suono a casa vengono a sentirmi i miei genitori.
Artisti che girano il mondo e poi tornano qua, dicevi. Vanno via perché in Italia non c’è più spazio per il cantautorato, almeno per il pubblico generalista, e prevale la musica da classifica?
È così in tutto il mondo. Anzi, in Italia stiamo vivendo un nuovo periodo d’oro del cantautorato, o comunque di musica fatta da artisti che apparterrebbero alla musica indipendente e alternativa e che invece oggi fanno il sold out nei palazzetti o gli stadi. Dietro però c’è sempre un moda che è scattata. In Italia siamo troppo legati alla tendenza del momento. Oggi va questo, e trascuriamo tutte le altre scene. Basta guardare i tour europei degli artisti stranieri. Fanno 10 date in Germania, 12 in Francia, e poi toccano fanno un’unica data in Italia, generalmente a Milano.
Pensi sia colpa del pubblico o di chi sta ai piani alti nella discografia?
Questo non te lo so dire. Qua entreremmo in un discorso di psicologia collettiva, in cui credo molto. Credo che ogni città e ogni paese siano entità senzienti, con i loro traumi, le loro manie e le loro psicosi. Ma la responsabilità è anche di chi vorrebbe un mercato più uniformato. Quindi qualcuno c’è che decide che le onde debbano essere solo quelle in un determinato momento. È un vero peccato perché poi il pubblico perde davvero tani artisti di qualità. Una scena musicale non è migliore se i cantautori finalmente suonano negli stadi, ma se in ogni città hai modo di ascoltatore ogni tipo di musica e soddisfare ogni tipo di curiosità. Ecco forse l’Italia è un paese naturalmente meno curioso.
Ad aprile porterai “Lights” prima in giro per l’Italia e poi a maggio in giro per la Germania. Cosa vedremo sul palco?
Intanto mi vedrete finalmente con una band, dopo tantissimi anni. Mi piace molto esibirmi da solo, e una gran parte del concerto rimarrà un recital solitario. Ci sono cose che devo portare senza essere accompagnato. Ma questo disco, anche per come è nato, è più corale. Mi è venuto naturale coinvolgere chi questo disco l’ha fatto con me in studio. Sarà più divertente perché finalmente viaggerò con un po’ di persone.
E dal punto di vista dei video, cosa ci aspetta?
Tengo tantissimo ai videoclip. Partecipo tanto alla loro creazione, mettendo le mie idee, e in parte dico la mia sulla regia, anche se mi affido sempre a registi professionisti. Mi piace dare sempre la mia impronta anche all’apparato visivo. Ho appena finito di lavorare al video di “Run, run, run”, che uscirà venerdì, insieme all’album. Son tornato a lavorare con Sergi Capellas, un regista catalano che aveva curato i miei primi due video. Ne ho fatto tanti altri in questi dieci anni in cui lui non è stato mai coinvolto per vari impegni, ma tornare a lavorare con lui è stato stupendo. Lui è davvero un artista dell’immagine. Con pochissimi mezzi riesce a fare del grandissimo cinema, e soprattutto a trasmettere quell’empatia che per me è fondamentale.
È per quel video che hai pubblicato una foto ricoperto di fango l’altro giorno?
(Ride). Esattamente! È stato un giorno particolarmente duro per me. Sono stato tutto il giorno ricoperto di fango, quasi nudo, mentre a Palermo pioveva e facevano 10°. Non so come ho fatto a non ammalarmi! Ma ce l’ho fatta, e il risultato è molto bello. E molto drammatico. Non perché abbia chissà quali doti attoriali, ma perché davvero stavo soffrendo in quel momento! Vedrete una prestazione molto molto sentita.
È arrivato il momento di salutare Fabrizio Cammarata. È stato un piacere e un onore poterti intervistare. Grazie per questa bella chiacchierata.
Grazie a te! Un abbraccio a tutti i lettori di Music.it.