Non poteva esserci esordio migliore per i Pitchtorch. Tre musicisti navigati con l’ossessione per il suono, producono in autonomia un album che reitera il nome che si sono scelti. La verve latina che non si nega alla psichedelia è il proemio dell’amore per la passione per il suono che va oltre i confini di genere che i Pitchtorch iniettano nella loro opera prima. Nella strumentale titletrack la band vuole far gustare la qualità del sound, spalmando su tempi dilatati suoni riverberati e delay che si fanno quasi tribali. Nel grumo di effetti, lo scoccare delle percussioni a interrompere la fluidità rende la traccia più intimistica.
In soluzione di continuità, il proemio di “Perfectly in tune” si lega agli arpeggi della prima traccia strumentale, evolvendosi in una surf-ballad che ci porta in America in men che non si dica. Nonostante le atmosfere quasi spagnoleggianti, l’atmosfera di “Pitchtorch” era scarna e gentrificata. Quelle venature di flamenco al rallenty attraversano l’Atlantico per diventare country. “Perfectly in tune” delle reminiscenze che affiorano da un dialogo tutto armonico tra strumenti che dal surf passa al rock. Viene rievocato per alcuni aspetti il tocco di Richie Sambora, dunque l’hair metal dei Jon Bon Jovi e anche quello dei Van Halen.
Pitchtorch è un diapason ma è anche una fiaccola che segna il cammino da intraprendere
In “Pictures are goin wild” torna la psichedelia di “Pitchtorch”, ma accostata a una narrazione più avvolgente nonostante la vocalizzazione scarnificata. Per essere il singolo estratto, non è la traccia più caratteristica dell’album, bensì quella che riesce a far entrare meglio nel mondo dei Pitchtorch, in cui folk, progressive rock e brit-pop si incontrano, il vasto pubblico amante di quelle atmosfere post-rock, che per certi versi richiamano il cantautorato di Eddie Vedder. Una ballata country come “Dear Old Seagull” è una coccola per le orecchie di un uditorio di nicchia. Con una rapida sterzata sul country, il cantato di Mario Evangelista si riappropria di una miriade di bassi che aveva tenuto fuori dalla traccia precedente.
Pitchtorch rappresenta la musica come una luce che può fare da guida in questi tempi bui
Il protagonista del proemio di “Not on Sunday” è il banjo. È una traccia molto particolare perché sul lato dell’arrangiamento sembra ispirata a “Further up on the Road”, brano della migliore tradizione bluegrass, reso celebre da Eric Clapton e Johnny Cash. Sul lato dello sfondo e dell’ambient, invece risuonano le note scure di Nick Cave and the Bad Seeds. L’orizzonte in cui si cala è nebuloso, il tempo sembra uscire fuori dallo spazio e dalle emozioni suscitate. Il secondo capitolo strumentale di “Pitchtorch” si chiama “Seashore”. In questa traccia emerge tutto il feticismo della band per le corde, per gli incastri sonori, e per l’ambient. Si confermano virtuosi sul fronte degli effetti e sul fronte melodico. Il discorso armonico di “Seashore” è ripreso in “Between You and Me”, riflesso in cui i Pitchtorch inseriscono una narrazione verbale.
Una dolce canzone d’amore in un unplugged a cui tempi dispari si incastra il pianoforte. Nell’interludio, tra levare di una pennata e l’altra sull’acustica, si innesta prima il pianoforte e poi l’organo. Infine sbriciolano l’armonia costruita strato dopo strato in una nuvola di distorsioni. Anche l’ultimo capitolo è strumentale. In “Actually is Fading” le corde si arrampicano attorno a un pulsare elettronico. È il basso, insieme al beep martellante, a costruire la struttura temporale su cui la chitarra ricama il suo discorso. Totalmente scardinata dall’impianto della canzone, conviene a riempire il flusso del suono l’effettistica sincopata. “Pitchtorch” si chiude con un’ultima fotografia della decadenza urbana, spalmata lungo 40 minuti di sonorità contraddittorie: familiari e distanti.