Proprio la chitarra è la sola voce di tutte tracce che costituiscono “Déjà-vu”, come se l’intero disco fosse una dedica alle sei corde. Lo stile è quello del blues primitivo e indigeno marchiato USA. Fin dal primo brano si può apprezzare l’uso della slide guitar per ricreare il sound tipico del delta blues. Ovviamente una versione rivista in chiave contemporanea, che prende spunto dagli storici bluesmen della prima metà del Novecento, ma anche da artisti come Ben Harper.
La vera bravura di Claudio Chiodi sta proprio nel non cedere all’uso del linguaggio standard, ma solo a quello della sua chitarra
Claudio Chiodi ha bisogno di sole sette tracce per creare una serie di atmosfere molto ispirate, ma dal respiro internazionale. Già il concetto stesso di un album come “Déjà-vu” non è frequente nel panorama musicale italiano. Il lockdown, poi, ha mostrato come non sempre autori ed artisti sappiano esprimere al meglio le istanze di una crisi simile. Allora interviene la musica. Perché forse la vera bravura di Claudio Chiodi sta proprio nel non cedere all’uso del linguaggio standard, ma solo a quello della sua chitarra. La composizione sul pentagramma sfugge dalla retorica spicciola e permette davvero una lettura migliore di quello che stiamo vivendo.
Insomma “Déjà-vu”, con la calma serafica sprigionata dalle chitarre acustiche e accordi aperti, ci insegna un modo diverso di fronteggiare il dramma del virus. In una parentesi storica in cui sono stati spesi fiumi di parole, Claudio Chiodi adotta la legge anglosassone del less is more. Poche parole e molta musica. Poche chiacchiere e molti fatti. Questo è un album che oltre ad essere un grande esempio di musica blues e tecnica di esecuzione, è un modello di reazione alle avversità.