Ragazzi degli Enjoy the Void, benvenuti sulle pagine di Music.it. Raccontatemi un aneddoto divertente che ricordate con piacere della vostra esperienza musicale, sia live che in studio!
Tony (basso): Ce ne sarebbero tanti. Il primo a venirmi in mente è questo: durante le registrazioni dell’album, il nostro batterista Francesco “Cek” Magaldi era molto stressato per via del tour de force in studio; quand’è arrivato il momento di registrare un pezzo batteristicamente delicato, “Doubt”, abbiamo sostituito il suono del click in cuffia con quello delle nostre voci che, simulando un metronomo, dicevano: “Cek, Cek, Cek”… Lui è rimasto interdetto per qualche secondo e siamo scoppiati tutti a ridere!
Come dicevamo poc’anzi, siete un gruppo veramente giovane. Iniziamo dalle vostre influenze, quali sono gli artisti ai quali vi ispirate maggiormente e i generi che prediligete?
Sergio (voce): Non abbiamo né band né generi di riferimento. Ci definiamo alternative rock proprio perché non significa niente. Certo, utilizziamo gli strumenti tipici del rock, ma questo non spiega granché. La nostra più grande ambizione è elaborare uno stile personale, originale, che può richiamare tante cose, senza però assomigliare a nulla. Ascoltiamo veramente di tutto, dai Beatles a Frank Zappa, dai Tool ai Tame Impala, passando per l’elettronica, il blues, il jazz, il progressive rock, il pop, ecc. Sicuramente siamo molto attenti alle uscite discografiche più recenti; cerchiamo di comprendere verso dove si stia dirigendo il mercato musicale, ammesso che stia andando da qualche parte. In generale ci interessa tutto ciò che ha personalità e crediamo che in ogni genere ci siano degli elementi per noi interessanti, in grado di rientrare come influenze nel nostro lavoro.
Ascoltando il vostro primo singolo, “Our Garden”, ho sentito quella che può essere un’ascendenza verso il genere e lo stile di David Bowie, mi sbaglio? Come mai avete scelto questo singolo dalla vena pop/malinconica come apripista?
S: Non sei il primo che, parlando di”Our Garden”, nomina David Bowie. Mi fa piacere, perché si tratta di un artista che ho sempre stimato e che forse, in certi frangenti, ha influenzato il mio modo di concepire la musica. Tuttavia quando ho composto “Our Garden” non pensavo minimamente a David Bowie, anzi, non lo ascoltavo da anni. L’ho sempre apprezzato, ma non l’ho mai ritenuto un riferimento. Se dovessi citare un’influenza specifica, farei il nome di John Lennon, senza dubbio. E poi c’è da dire che nessun altro pezzo dell’album si avvicina alle sonorità di “Our Garden”. Ogni nostra canzone, del resto, fa storia a sé.
T: Eravamo molto indecisi su quale pezzo scegliere come singolo. Abbiamo fatto ascoltare i brani a diverse persone, e una buona parte ha suggerito “Our Garden”. Forse ero io quello che, all’inizio, puntava più su questa canzone. Mi sembrava la più melodica ed anche la più classica dal punto di vista del sound. Pensavo che a un primo ascolto avesse più chance d’interessare e coinvolgere rispetto ad altri pezzi, proprio per la sua immediatezza.
Parlatemi ora liberamente del vostro primo lavoro, raccontandomi la vostra esperienza in studio, i problemi legati alla registrazione e le soddisfazioni del lavoro completo, descrivendo ovviamente il disco ai nostri lettori.
T: Il problema principale era la lontananza di Sergio Bertolino. Lui è di Reggio Calabria e veniva a Sapri quando poteva. Questo ci ha costretto a lunghe pause in corso d’opera. I pezzi li ha scritti lui, quindi era giusto che fosse presente in tutte le fasi di registrazione e post-produzione. A parte questo, credo che la maggior parte di noi non fosse consapevole del reale valore del prodotto che stavamo realizzando. È stata una bella soddisfazione ascoltare l’album finito e renderci conto di aver svolto un bel lavoro.
Sergio?
S: Raccontare dettagliatamente il disco sarebbe un’impresa ardua e prenderebbe troppo tempo. Rischierei di dilungarmi ed annoiare. Ciò che posso dire è che abbiamo cercato di forgiare un sound tutto nostro, riconoscibile. Benché i pezzi siano decisamente diversi tra loro, c’è un filo che li accomuna, uno stile allo stesso tempo omogeneo ed eterogeneo. Uno stile che è lo specchio del nostro gusto: aperto ed eclettico, da un forte sapore intellettuale, che ci spinge ad indagare in profondità le tematiche che affrontiamo, cercando sempre la via migliore per esprimere – attraverso la musica – le idee e i messaggi contenuti nei testi. Odiamo la superficialità. Ogni elemento dell’album è studiato nel dettaglio; ogni fraseggio, ogni nota sta lì per un motivo. Sottolinea ed esprime qualcosa. Consigliamo di ascoltare i pezzi prendendo in considerazione i testi, altrimenti sfuggirebbero parecchie sfumature. Nel nostro rock si può trovare di tutto: il blues, il jazz, il pop, l’elettronica, il funky… persino l’hip-hop. Non sopportiamo le etichette, le classificazioni. A chi chiede quale sia il nostro genere, ci piacerebbe rispondere che suoniamo la musica degli Enjoy The Void.
State pianificando un tour? Cosa pensate dell’esperienza live rispetto a quella in studio, quale preferite?
T: Sì, stiamo provando a organizzare un tour, soprattutto in vista dell’estate. Abbiamo appena cominciato, per cui sono ancora poche le date definite. Sia i live che il lavoro in studio rappresentano per noi esperienze interessanti. Ciascuna implica una motivazione peculiare. In studio possiamo dare più sfogo alla nostra vena sperimentale, provando e riprovando, sempre in cerca di soluzioni nuove, che difficilmente uscirebbero fuori d’istinto. Possiamo, insomma, lavorare più sui dettagli. In un concerto, invece, siamo focalizzati maggiormente sull’atmosfera generale, sul mood e sull’emozione che si genera, che è altrettanto importante, e richiede la stessa dose di gusto e di creatività.
Per concludere, vi vorrei proporre un piccolo gioco: ditemi qual è la canzone, fra tutte, che avreste voluto scrivere voi, e quale invece non vorreste mai scrivere, spiegando il perché ai nostri lettori.
S: Citando la stessa band, i Beatles, direi che mi sarebbe piaciuto scrivere “A Day In The Life”, mentre non andrei troppo fiero di un pezzo come “Yellow Submarine”. “A Day In The Life” è un capolavoro sotto molti punti di vista: è melodico, imprevedibile, pieno di inventiva, per non parlare poi dell’arrangiamento: meraviglioso, di una complessità genuina, assolutamente non forzata. “Yellow Submarine”, invece, è un pezzo divertente, senza pretese: non amo i brani che non stimolano il pensiero; rispecchia un certo tipo di atteggiamento facilone che non apprezzo nell’arte.
È stato un piacere scambiare quattro chiacchiere con voi, vi lascio qualche riga per aggiungere ciò che volete!
T: Non aggiungerei niente. Preferirei che fosse la musica a parlare, perciò invito i lettori a seguirci sui social e ovviamente ad ascoltate l’album! Grazie!