In foto il sassofonista Gianni Denitto durante un'esibizione.

GIANNI DENITTO: “Ho visto la bellezza e la ricchezza nelle differenze culturali”

Ciao Gianni Denitto, benvenuto su Music.it! Iniziamo subito con un tuo ricordo. Racconta ai lettori un aneddoto che non dimenticherai mai accaduto durante la tua carriera musicale.

Più che un aneddoto in particolare mi vengono in mente diversi ricordi che mi accompagnano da anni. Sono legati a emozioni forti, a scambi umani in cui la musica ha creato legami speciali e aperto mondi che altrimenti sarebbero rimasti lontani. Penso al concerto nel campo migranti di Lesbo, durante il Symbiosis Festival, o alla performance a Hong Kong, dove nel 2015, gli organizzatori erano preoccupatissimi che sul palco potessi pronunciare parole in cinese mandarino. Ancora, a Mumbai questa volta, dove per arrivare alla stanza dell’hotel dopo il concerto ho dovuto scavalcare le decine di corpi distesi sul pavimento di chi lavorava (e dormiva) lì. In generale, i flash più belli sono legati allo sguardo gioioso dei bambini, in qualsiasi angolo del mondo si trovino, che si accendono con la musica. Questa è la ricchezza della musica: la possibilità di aprirti al mondo e, allo stesso tempo, di essere un veicolo di umanità e condivisione, una porta aperta sul presente.

Sassofonista eclettico nato con la musica classica e maturato con il jazz. Quali sono stati i tuoi Maestri di riferimento?

Sono molti. Ci sono i “grandi” a cui mi sono ispirato, e i “grandi” che mi hanno accompagnato per mano sin dai primi passi. Tra i primi penso a Massimo Urbani, Miles Davis, John Coltrane, i Radiohead. Poi ci sono i maestri che ho avuto modo di conoscere di persona; il primo è stato un ex violinista del Teatro Regio di Torino che abitava al piano sotto casa dei miei genitori. Mi sentì suonare il flauto dolce quando ero bambino e mi disse: “potresti diventare un musicista”. Per me è stato un faro, un secondo padre a cui chiedere consigli e confrontarmi. Poi, non posso non ricordare il mio primo insegnante al Conservatorio, Vittorio Muò: a lezione suonavamo Bach ma anche Stevie Wonder, ascoltavamo Brian Eno e musica etnica. Lui mi ha fatto conoscere i diversi generi musicali e mi ha insegnato a concepire la musica come uno spazio aperto.

È sempre bello ricordare chi ci ha fatto innamorare della musica!

Non solo! Successivamente, con Furio Di Castri, contrabbassista, mi sono innamorato del jazz e dell’improvvisazione. Sentirlo suonare è sempre emozionante. Cito un ultimo riferimento, Toti Canzoneri, flautista e polistrumentista che per primo mi ha fatto venir voglia di viaggiare seguendo il suo esempio, e per primo mi ha fatto comprendere l’intercultura musicale grazie alle jam session che conduce da 18 anni al Café des Arts di Torino.

Il 20 settembre è uscito “Kāla”, il tuo terzo album pubblicato dopo un intensissimo tour. Dopo tre anni di viaggio: chi è oggi Gianni Denitto? Come senti di essere cambiato dal punto di vista culturale-musicale?

Il 20 settembre è uscito il Remix Pack di “Kāla”, il disco originale è uscito nel giugno 2018, racconta i miei viaggi tra il 2014 e il 2017. Ho avuto il tempo ormai di digerire le lunghe residenze all’estero, che sono esperienze decisamente diverse dai tour. Nei tour viaggi per brevi periodi cambiando spesso città, nelle residenze riesci a percepire di più la cultura del luogo, stringere amicizie vere, cominciare nuove collaborazioni. “Kāla”, per l’appunto, vede ospiti da molti Paesi diversi: India, Senegal, Svezia, Marocco, Singapore. I tre anni di viaggio hanno consolidato una convinzione che prima era solo teorica: le differenze culturali, gli scambi, le contaminazioni sono sempre una ricchezza piuttosto che un ostacolo.

Il viaggio e il tempo trascorso ha influenzato il tuo modo di fare musica rispetto ai primi album? Se sì, in cosa?

Assolutamente sì. Inevitabilmente entri in contatto con le musiche e le tradizioni dei diversi Paesi, impari ritmi e scale nuove, modi differenti di contare la musica. Bellissimo. Tutto ciò mi ha reso ancora più curioso, ho una voglia matta di scoprire e conoscere ancora altre forme espressive. Questo è il vero viaggio: non può essere il mero spostarsi fisico da un posto all’altro ma riuscire a rimanere aperti al diverso e all’inaspettato. Solo così ogni volta che viaggiamo cambiamo qualcosa anche di noi stessi.

“Kāla” è un percorso musicale e geografico che accompagna gli ascoltatori in un viaggio che unisce la darbuka marocchina al balafon di Dakar, la monodia dei raga indiani all’improvvisazione jazz afro-americano. Cosa ti ha incuriosito e cosa ti ha spinto a conoscere questi nuovi mondi?

Il primo viaggio è stato un caso, da lì tutto è andato avanti quasi da solo. Volevo cambiare orizzonte e ho digitato su google Kathmandu e Jazz. Dalla ricerca emerse “Kathmandu jazz Conservatory”. Ho fatto richiesta per insegnare, mi hanno preso. L’Istituto di Cultura Italiano mi ha dato una mano pagandomi i voli e trovandomi qualche concerto. È da lì che è partita l’idea del sax ed elettronica. Una necessità, una sfida con me stesso. I concerti sono andati bene e altri concerti sono arrivati a ruota, in diversi Paesi. Mi ci sono trovato improvvisamente dentro. Ho lasciato la mia casa di Torino, mi sono trovato libero di viaggiare e di esplorare.

L’incontro e la fusione di più culture fanno del tuo nuovo album un tripudio di colori. Quale messaggio si nasconde dietro a “Kāla”? Cosa vuoi trasmettere a chi lo ascolta?

Credo che un disco, come qualsiasi forma artistica, per essere vero debba essere autentico, debba raccontare una parte di te stesso. Io ho raccontato la mia esperienza in luoghi lontani e con culture diversissime dalla nostra. Ho visto la bellezza nella contaminazione, nell’accoglienza nelle sue forme più profonde. Ed è questo che mi piacerebbe riuscire a trasmettere, un invito ad abbandonare la paura dell’altro da sé, l’idea che mischiare, fondere e rimanere aperti non significa perdere la propria autenticità, ma anzi è l’esatto contrario. Per usare l’immagine dei colori: contaminare non vuol dire rendere tutto un pastone grigio, ma semmai rendere le sfumature ancora più brillanti.

Nuovi progetti in arrivo? Dove ci condurrà il tuo prossimo viaggio musicale?

La mia casa è Torino, continuo a viaggiare ma come un elastico, vado e torno. Ora ho un mio studio dove sperimentare nuovi brani e nuovi suoni. Il prossimo viaggio musicale sarà interiore. Ci sto lavorando, vorrei finire i brani entro agosto. Approfondimento, questa è la parola chiave. Non stare in superficie. Studiare. Immergersi. Guardarsi dentro e conoscersi, senza ignorare i lati più nascosti. Oltre al mio prossimo disco solista sto lavorando stabilmente con altri due progetti: Kora Beat, un quintetto composto da musicisti italiani e senegalesi, insieme dal 2012, che lavora sul dialogo interculturale. La kora è un’arpa africana, e le frequenze del sax e della kora si sposano benissimo. L’altro progetto si chiama T.U.N. (Torino Unlimited Noise) in trio con Fabio Giachino alle tastiere e Mattia Barbieri alla batteria. Il nostro è un mix tra jazz e musica elettronica, tra l’anima industriale e la potenza espressiva sotterranea della città.

Non ti fermi un attimo!

E non è tutto. Nel 2020 avrò anche l’onore di seguire in un progetto live speciale il pioniere della Dub Music Zion Train, con il quale collaboro già da anni; in trio con Neil Perch e Paolo Baldini e un video artista, Akasha, che ha anche curato i visual di “Kāla”.

Siamo giunti al momento dei saluti. Gianni Denitto, ti ringraziamo per il tempo passato con noi. Le ultime righe sono per te: saluta i lettori e i tuoi ascoltatori come preferisci!

Grazie e ciao a tutti, spero che la mia musica possa farvi viaggiare e darvi delle vibrazioni positive! Nellla testa e nella pancia!

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