Frutto di anni di scrittura solitaria, è una ricollezione di istantantanee a cui è stata data la medesima cornice identitaria. L’autoproduzione non è faccenda per tutti. Bisogna scoprire quale sia il vestito che calzi a pennello con il motivetto che si continua a fischiettare o a tamburellare con le dita sul tavolo. Ma si sa, è nella relazione che si producono meraviglie, anche e soprattutto nel campo artistico. E in fondo, la produzione non è niente di diverso da un processo di creazione, in cui bisogna stare attenti a non caricare il brano di accessori e virtuosismi inutili.
In “Tutto l’amore che c’era”, Alberto Mancinelli monta su una struttura cantautorale una scenografia psichedelica
È con il lavoro svolto insieme a Don Antonio, al secolo Antonio Gramentieri, che “Tutto l’amore che c’era” diventa un prodotto pregiato. Alle pennate che scandiscono i versi della narrazione, a volte sincopati come in “Incroci”, viene dato un nutrito riempimento. Chitarre elettriche curate da Don Antonio, l’armonica di Alberto Mancinelli, percussioni di Pietro Perelli e Denis Valentini. Il violino di Vicki Brown, i contrappunti vocali di Elisa Ridolfi, l’organo suonato da Nicola Peruch, qualora il sintetizzatore non bastasse. Sono tanti a essere stati interpellati per facilitare l’arrivo dell’album all’emotività dell’ascoltatore.
L’effetto è un album maturo e maneggevole. In “Tutto l’amore che c’era”, Alberto Mancinelli monta su una struttura cantautorale una scenografia psichedelica. Vocalizzazione e ritmo sono più caldi delle nervature elettroniche, personalizzate per ogni traccia. Questo connubio in “Maggie” sfocia nell’elettroswing, mentre in “Corsia d’emergenza” il ritmo danzereccio si fa spagnoleggiante. Il sapore vintage che l’autore ha voluto dare a questa collezione di momenti sonori sembra guardare a una versione pop dei Massimo Volume. La musica di “Tutto l’amore che c’era” è perfetta per questa primavera: compagna per i primi viaggi e confortevole per gli ultimi freddi dell’inverno.