Sicuramente un album votato alla potenza tecnica dei musicisti, che sfoggia una notevole quantità di passaggi per “addetti ai lavori”. Fin dalle prime tracce è evidente il rispetto che i Methodica provano verso la buona musica, ben scritta ma soprattutto ben eseguita. Probabilmente, infatti, in “Clockworks” non esiste un aspetto compositivo da criticare, tutto ha il suo giusto posto ed è realizzato con cura e attenzione. C’è metodo nei brani che propone il gruppo, e anche osservanza dei canoni stilistici del progressive metal. E credo sia proprio questo l’”intoppo” del disco. L’impressione è che i Methodica abbiano battuto una pista già conosciuta, un sentiero familiare per loro che sono del mestiere.
Il problema di “Clockworks” non è tanto la sua “sindrome di Benjamin Button”, quanto il modo con cui ha provato a scrollarsela di dosso
Un album che forse, con un pizzico di cattiveria, si potrebbe dire nato già vecchio, più vicino alle sonorità di un abbondante decennio fa, magari. Il problema di “Clockworks”, però, non è tanto la sua “sindrome di Benjamin Button”, quanto il modo con cui ha provato a scrollarsela di dosso. L’incontro fra strumenti e stili diversi (a tratti mutuati dalla dubstep) produce un effetto disorientante sia per il neofita del genere, sia per l’aficionado.
Sembra che i Methodica abbiano voluto strizzare l’occhio a due mondi lontani fra loro, e sul viale del tramonto, o quantomeno tenere il piede in due staffe. E quando si cerca un compromesso è facile scontentare le diverse istanze coinvolte nell’ispirazione. L’anima prog metal non l’hanno certamente persa snaturandosi, ovvio, solo che tutto “Clockworks” suona un po’ fuori dal tempo. Un’opera che non deluderà lo zoccolo duro cresciuto a pane e Dream Theater, che però aggiunge poco al dibattito musicale contemporaneo, purtroppo.