“Spring in Blue” è un disco denso, saldamente terreno e assolutamente forte
Con “Spring in Blue” i SVNTH hanno infatti scavato i variegati delle tinte black come a discuterne le possibilità. Possibilità che sono contaminazioni e viaggi temporali, docce fredde che ustionano come il ghiaccio sulle scottature. Sì, perché parliamo di un disco che sprizza blu notte, registrato al The Thousand Cave Studio, a New York e che raccoglie sei tracce nell’arco di un’ora abbondante. Un disco che pretende attenzione, ma non propone uno sforzo di ascolto: viaggia e fa viaggiare. Ovviamente, si deve amare circondarsi di nessuno o – tutti che siano – e godere delle vibrazioni a frustata che si consumano momento dopo momento, tra preziosi richiami doom, antiche vette progressive, sferzate post-rock che tra brutal e melodia portano dentro un trentennio passato che, se vivo come negli incastri perfetti di alcuni momenti di questa “Spring in Blue”, è ancora emozionante, quasi sorprendente.
Le atmosfere, ovunque, sono cupe ma distese. Risuonano dei passi consumati. Randagia la natura non convenzionale dell’intenzione architettonica. La frescura del disco sta infatti tutta nella misura, nel coinvolgimento armonico e solido tra basso, chitarre, batteria e voce. Il disco, che piaccia o meno, è suonato benissimo, è alchemico. C’è violenza, mi sembra, in questa lunare, funesta primavera sonora che è blu come i fiori di Queneau. Violenta come l’esperire del reale attraverso il sogno, del viaggio ispirato in cambio del sogno. “Who is the dreamer?” citano i SVNTH in apertura. Tutti. La domanda che mi viene, ascoltando il disco ed osservando l’artwork di Reuben Sawyer, è “qual è il sogno?” Che sia lucido per chiunque voglia domande da rivolgere alle interiora.