Dolores (Lali Espòsito) è una comunissima studentessa a cui non mancano gli agi familiari, né le esperienze solite dell’età, feste e amici. La sua vita cambia quando diventa l’unica sospettata dell’omicidio di una coetanea avvenuto durante una festa privata. La ragazza trascorre le proprie giornate rintanata in casa. Gioca ai videogame col fratellino, è visitata dagli amici che la sostengono e credono nella sua innocenza. I genitori le sono vicini ma non senza riserve, malgrado quello che le danno a vedere. Assumono il legale migliore, la accompagnano in giro, le stanno addosso per evitare che si comprometta ulteriormente. Intanto il processo si avvicina e il suo caso è diventato mediatico. Ma, ancora prima che nella sentenza, la sua colpevolezza è sulla bocca di tutti, nessuno escluso.
“Acusada” si crede diverso, inconsapevole che l’essere o meno in un programma festivaliero non è garanzia di qualità a prescindere.
La sinossi lineare non trova modo di rilanciare la propria banalità e prevedibilità, e quando cerca di farlo imbocca la strada sbagliata infarcendosi di metafore grossolane. “Acusada” è fondamentalmente un procedural. Un film su un fatto di cronaca senza nessuna attrattiva che percorre tutte le tappe del genere senza saltarne nessuna. Dopo una prima parte in cui va in scena il beneficio del dubbio, assistiamo alle sedute in tribunale e alla sentenza. In mezzo poco e niente, ma il regista non lo sa. Ed è questo il problema.
Gonzalo Tobal pretende troppo dal suo film, amplificando una vicenda striminzita e stanca, adoperando soluzioni che puntano più in alto delle proprie possibilità. Seguiamo i giorni della protagonista tra prove e controprove, perizie e sonnacchiosi scontri familiari. Capiamo ben presto che quella legale è solo l’ufficializzazione di uno stigma già avvenuto. Ci rendiamo conto subito che non vedremo niente di più di quanto si vedrebbe in un film serale su Canale 5. Quest’ultimo però vola basso, puntando a rapire l’attenzione di una casalinga in poltrona. “Acusada” al contrario si crede diverso, inconsapevole che l’essere o meno in un programma festivaliero non è garanzia di qualità a prescindere.
Gonzalo Tobal pretende troppo dal suo film, amplificando una vicenda striminzita, adoperando soluzioni che puntano più in alto delle sue possibilità.
Proprio perché immotivate, le stesse scelte di regia paiono un abito falso, indossato solo per darsi un tono e presentarsi. E via di flashback inevitabili, movimenti di macchina e palestra di stile alle prime armi, e ovviamente retorica e chiosate etiche superficiali. Finanche una spolverata di simbologia animale facilmente leggibile: un passerotto e un puma metropolitano.
All’improvviso si intreccia nel minutaggio una sequenza didascalica sul sensazionalismo e sul potere dei media di costruire la verità, microfonandola nei salotti tv e vendendola in un videowall con le luci sparate e la telecamera che inquadra gli occhi dell’intervistata di turno pronta a scorgere una qualche microespressione traditrice. In uno studio televisivo il presentatore (Gael Garcìa Bernal) chiede alla protagonista una dichiarazione, cercando di metterla in scacco e di tirarle fuori di bocca la confessione acchiappa-share. La scena si riduce a un bozzetto dimostrativo di quella morbosità per la cronaca nera che a noi italiani dovrebbe essere familiare. Sarebbe bastato solo un “lei mi sta dicendo che?” e sarebbe partito l’iter per il gemellaggio Argentina-Italia.