A memoria, “God exists, Her name is Petrunya” della regista Teona Strugar Mitevska è il primo film macedone della mia vita. Ed è sempre bello quando un primo incontro lascia solo tanti buoni presupposti per i prossimi eventuali. La regista ha creato con pochissimi ingredienti una satira arrabbiata e malinconica che pone interrogativi di peso sullo status del cambiamento democratico nella società della Macedonia. Contemporaneamente, lancia con lo stesso impeto ficcante alcuni giudizi caustici sull’ingerenza della Chiesa, sulle autorità e sui media. Le simpatie del film sono tutte rivolte alla determinazione logica e acuta della sua protagonista, la quale sacrifica se stessa contro le tradizioni arcaiche e il paralizzante opportunismo del suo paese. Anche noi siamo dalla sua parte e quasi ci verrebbe da applaudire quando con poche parole assennate riesce a smontare le accuse infondate e stolte dei rappresentati religiosi e dei poliziotti, tutti evidentemente uomini.
Petrunya si mette comoda e aspetta che il prossimo maschio che pensa di avere ragione si faccia avanti.
Petrunya è una disobbediente, la sola nella famiglia ad aver studiato, la sola ad aver disobbedito alla vita prestabilita fatta di un marito e di un lavoro, optando per un sapere che non ha spendibilità. Petrunya sa che sua madre, che le consiglia i colori da abbinare, le dice di essere grassa e che dovrebbe curarsi di più, non può capire cosa sua figlia pensa. Sa, e alla fine lo accetta. Ma dall’esterno cerca di cambiare le cose. Probabilmente quel tuffo, fatto sovrappensiero e dopo l’ennesima umiliazione di un colloquio farsa in mezzo a decine di donne chine sulle macchine per cucire, non avrebbe sortito chissà che cambiamento. Ma Petrunya si getta nell’acqua non per gareggiare, non per recuperare la croce della quale nemmeno le importa. Si tuffa per istinto, come un animale che ha bisogno di conquistare qualcosa per sé e per poter dire al mondo io esisto.
Alla protagonista poco importa del pezzo di legno religioso, religione che irride in modo sottile e mai volgare, ma sempre penetrante e puntuale. Eppure quella croce ha un valore, è il simbolo di una rivalsa, momentanea, magari vana, ma costituisce un precedente. Dura più di ventiquattrore il fermo alla centrale durante il quale va in scena il via vai di poliziotti: qualche nostalgico fascista, qualche giovane recluta che le dà speranza e anche una carezza, e pure un colonnello fan di Alessandro il Macedone, orgoglio del paese contro i nemici Greci. Il suo spirito e i suoi pensieri si scontrano orgogliosamente contro la tempra acerba di una democrazia precaria, ossequiosa all’ortodossia religiosa ma laica nelle leggi. E allora il fermo di polizia diventa una farsa e Petrunya lo sa bene. Si mette comoda e aspetta che il prossimo maschio che pensa di avere ragione si faccia avanti.
“God exists, Her name is Petrunya” ha dalla sua parte la chiarezza ad ogni livello: registica, narrativa ed etica.
Prima i poliziotti, poi il prete che rivuole croce indietro e poi anche la madre che la raggiunge alla centrale dopo aver rilasciato un’intervista esilarante insieme al marito. I due genitori della protagonista, seduti su un piccolo divanetto vengono intervistati da una zelante giornalista che con un cameramen al seguito segue il caso da vicino. Sguardi in macchina, microfono in mano e sensazionalismo, fino a quando la madre non rompe gli schemi dell’intervista e chiede alla Nazione nient’altro che un lavoro per la figlia. Intanto Petrunya aspetta, viene rilasciata, assalita e insultata dai giovanotti defraudati della croce nel fiume, e quindi riportata dentro. Non è in arresto ma non può andarsene: l’emblema di un paese imbrigliato nelle proprie contraddizioni, che ha messo su un’identità nuova senza capirla veramente. Tutti rivogliono quella croce, ma l’unica che non la vuole la stringe a sé, come uno scudo, un’estensione della propria forza.
“God exists, Her name is Petrunya” ha dalla sua parte la chiarezza ad ogni livello: registica, narrativa ed etica. La regista segue un gobbo a caratteri cubitali e non sbaglia una riga; puntuale, piccola nella confezione ma grande nel messaggio e nella resa. Non mancano le lodi per una protagonista credibilissima e ispirata, presa dal niente e caricata dell’intero film. La sconosciuta Zorica Nusheva riesce a sovrapporsi al personaggio in tutto, ipotecando il premio come miglior attrice. È quando vedo film così che ricordo il compito primario dei Festival troppo spesso dimenticato: dare la giusta vetrina a un’esigenza geografica, registica o tematica. Non siamo dalle parti del cinema didattico, ma da quella del cinema che fa pensare senza ricatti, senza costringere lo spettatore alla riflessione. Cinema che, se fa sorgere anche solo un dubbio quando la proiezione è terminata, allora merita di esistere.