Il cantautore americano naturalizzato italiano Ben Slavin.
Il cantautore americano naturalizzato italiano Ben Slavin.

BEN SLAVIN: “Ho capito che musica e arte le devi fare per spiegare te a te stesso”

Diamo il benvenuto sulle pagine di Music.it a Ben Slavin. Ciao, piacere di conoscerti! Cerchiamo di capire che tipo sei, fin da subito. Raccontaci una storia particolare che ti lega al mondo della musica.

Ciao! A 16 anni ho iniziato a studiare come cantante lirico. Ho fatto il conservatorio negli Stati Uniti poi mi sono perfezionato a Milano. Però ho sempre avuto una passione per la musica cantautorale-folk americana. Poi quando ho conosciuto Odette Di Maio, ex cantante dei Soon, ho abbandonato la lirica per prendere questa strada.

Partiamo dal tuo paese, l’America. Che scene ha visto Ben Slavin, al di là dell’oceano, parlando di musica?

Sono più di 15 anni che non ci vivo. Ormai c’è così tanta gente che scrive e canta che uno si perde completamente. So che in tanti si stanno spostando dai grandi centri musicali – Austin, Nashville, New York – per stare in città più economiche come Detroit o Philadelphia. Quando torno a casa mi sorprende sempre il gran numero di locali per suonare!

Parliamo dell’Italia, il paese in cui vivi da vent’anni. Dammi tre motivi che descrivono al meglio il legame di Ben Slavin con la nostra penisola.

Alcune cose stanno cambiando, come i valori umani. Piano piano non si ha più la stessa visione per quel che riguarda l’assicurazione sanitaria e la non-violenza, per esempio. Ma sono gli stimoli artistici, l’apprezzamento della bellezza e il fatto che non si finisce mai di scoprire questo Paese a renderlo veramente unico.

Sei laureato in canto d’opera alla Arizona State University. Pensi che le tue capacità, canore e musicali, si uniranno prima o poi nel tuo percorso artistico?

Credo di sì. Ora ho iniziato un progetto con un amico che scrive colonne sonore per i film a Los Angeles e penso che già l’anno prossimo inizieremo a registrare qualcosina. Ma si parla più degli arrangiamenti sinfonici e concetti più che di voce lirica impostata. Spesso quando il mondo della musica leggera o popolare si unisce con la lirica i risultati sono sempre un po’ trash. Non faccio nomi ma penso che si capisca a chi mi riferisco.

Quanto è apprezzato il genere che suoni? Dove ti esibisci e che genere di pubblico ti segue?

Proprio negli ultimi 5 anni c’è stato un esplosione della musica folk. Con Bon Iver e Sufjan Stevens penso che il genere di indie folk sia diventato quasi mainstream, almeno nei paesi anglofoni. A dir la verità faccio pochissimi concerti. Non è affatto semplice inserirsi nella scena napoletana. Dopo un po’ mi sono stancato e mi sono dedicato ad altro.

“The Pines” è il nuovo progetto di Ben Slavin. Come è nata l’idea di fare un disco? Raccontami un aneddoto legato alla produzione di questo disco.

Questo disco l’ho fatto esclusivamente per me stesso. All’inizio non volevo nemmeno farlo uscire. Ho raggiunto un certo punto in cui sentivo il bisogno di spiegare a me stesso certe decisioni prese nella mia vita. Sentivo un forte richiamo a fare pace con la mia infanzia e il mio passato. Il disco è stato prodotto in una maniera piuttosto insolita. Io registravo la chitarra e la voce poi mandavo i file ad Andrea Faccioli e lui ci ha cucito addosso il vestito musicale che più sentiva. Poi sono andato qualche giorno a Verona per fare le secondi voci e per fare qualche aggiustamento. È stato un processo molto organico e piuttosto facile.

Come vi siete conosciuti? Cosa apprezzi del lavoro che Andrea Faccioli ha fatto con te e per te?

Per puro caso, ho assistito un concerto del progetto solista di Andrea Faccioli, Cabeki, senza sapere chi fosse. Non sapevo nemmeno suonasse insieme ai Baustelle e Le Luci Della Centrale Elettrica. Lui ha iniziato a tirare fuori tutti questi strumenti della mia infanzia: strumenti che vengono suonati nella mia zona nella musica popolare. Ho capito in quel momento che era l’unico musicista in Italia in grado di poter produrre e arrangiare il disco. E cosi è stato. C’è stata subito un’intesa artistica molto forte pur avendo caratteri e culture completamente diversi.

In “The Pines” ci sono diversi suoni che sembrano provenire dall’Oriente, da atmosfere non cosmopolite. Perché li usi? E che racconto c’è dietro quel sound?

Tutti quelli che senti in realtà sono strumenti rurali nordamericani, per esempio autoharp, ukelin e banjo. Abbiamo usato quegli strumenti perché volevo proprio un suono del folk rurale americano come base. Insomma, volevo proprio i suoni della mia infanzia. Poi Andrea Faccioli li ha manipolati per avere i suoni che senti insieme con qualche accenno elettronica più moderno.

Vuoi aggiungere qualcosa per i lettori di Music.it? 

Mi dispiace che ci sia voluto cosi tanto tempo per rendermene conto ma la musica e l’arte le devi fare per spiegare te a te stesso. Ho trovato una pace immensa a scrivere delle cose che ho vissuto. Il momento che scrivi per un mercato o in una maniera in cui pensi a qualcuno può piacere l’arte diventa una cosa finta. È ancora più difficile adesso che non si vendono più dischi e praticamente non esiste più un mercato discografico. Ormai devi mandare a quel paese tutto e scrivere per te stesso. Poi se a qualcuno piace, ben venga.

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