“BlacKkKlansman”, premiato col Gran Prix all’ultimo Festival di Cannes, è un film incendiario ispirato alla vita e al libro di Ron Stallworth.
Nei primi anni ’70, al culmine della lotta per i diritti civili, si verificarono diversi scontri nelle grandi città degli Stati Uniti. Ron Stallworth (John David Washington) è il primo poliziotto americano nero del dipartimento di Colorado Springs, ma il suo arrivo è accolto con scetticismo e franca ostilità da parte degli ufficiali di grado più basso. Prendendo il coraggio a due mani, Ron proverà a forzare le linee e, forse, a lasciare una traccia nella storia.
Si pone quindi una missione tra le più pericolose: infiltrarsi nel Ku Klux Klan per denunciarne gli abusi. Facendo finta di essere un estremista, Ron contatta telefonicamente il KKK: in poco viene invitato a entrarne a far parte. Ha persino un rapporto privilegiato con il “Grande Mago”, David Duke (Topher Grace), sedotto dall’impegno di Ron per un’America bianca. Mentre l’indagine prosegue e diventa sempre più rischiosa, Flip Zimmerman (Adam Driver), collega di Stallworth, presenzia per Ron agli appuntamenti coi membri del gruppo suprematista. E apprende che si sta preparando un’operazione dinamitarda.
Rossella O’Hara, che cerca il suo Ashley nello sconfinato ospedale da campo di Atlanta in “Via col vento”, è giustapposta dal montaggio a un cinegiornale di propaganda del 1957 per illustrare le ragioni della supremazia bianca. È la parentesi iniziale del film di Spike Lee “tratto da una fott*ta storia vera”. L’opera alleggerisce l’impegno del soggetto con una scrittura equilibrata e lineare, in grado di avanzare un discorso civile complesso, semplificandolo con tutti gli strumenti del fare cinema.
Spike Lee guadagna con questo film la freschezza mancante a tutti i suoi precedenti lavori più seriosamente black.
Spike Lee aderisce ai modi e al pensiero del suo stesso personaggio, infiltrandosi sia tra i compagni del Black Power che nel clan di incappucciati, apparentemente senza prendere posizione. Ma quella che per qualunque altro regista sarebbe diventata una crociata, per Spike Lee rimane un lavoro, quello registico. Ron intende cambiare le cose dall’interno del sistema razzista, e come lui Spike Lee intende raccontare una storia dall’interno del mezzo cinematografico.
È chiaro che le intenzioni e i sentimenti del regista – e di qualunque persona sana di mente – lavorano per dare “tutto il potere a tutto il popolo” e non per “benedire l’America bianca”, ma l’operazione scelta è meno diretta, centrifuga e non aggressiva. Spike Lee guadagna con questo film la freschezza mancante a tutti i suoi precedenti lavori più seriosamente black, come “Lola Darling”, “Malcom X”, “He got Game”, “Lei mi odia”. In questo caso la causa nera emerge per contrasto. I deliri del KKK vengono lasciati implodere, sbeffeggiando esaltati ridicoli che mangiano tartine e giocano a biliardo.
La sceneggiatura di “BlacKkKlansman” concede corda e battute, aspetta che tutta l’assurdità della cooperazione razzista venga fuori strozzando qualunque balla suprematista. E non bisognerà attendere molto, meno del tempo che occorre a un poliziotto nero a spacciarsi per un bianco fanatico. L’incapacità di una sedicente causa politica è palesata costantemente. La regia deride dall’alto la faciloneria con cui le grandi menti bianche abboccano a qualunque amo gli si lanci, mentre alla stazione di polizia coprono la cornetta per non scompisciarsi. Basta qualche volgarità razzista e antisemita perché tu venga eletto membro e ti venga recapita a casa la tessera di affiliazione, ma “abiti, cappucci o altro sono extra per colpa dell’inflazione”.
Spike Lee strizza l’occhio al cinema per tirarlo in ballo, affidandogli una parte di responsabilità nell’aver restituito popolarità al KKK.
Il più grande merito di “BlacKkKlansman” è nella sua volontà di essere film, di esprimersi orgoglioso attraverso il mezzo, rischiando anche con scelte estetiche postmoderne fatte di split screen, locandine a schiaffo e patchwork di primi piani. Il film di Spike Lee strizza l’occhio al cinema per tirarlo in ballo, affidandogli una parte di responsabilità nell’aver restituito popolarità al KKK. Anche nel fare questo la regia agisce da dentro in maniera sottile. Alla cerimonia di affiliazione, i membri del Klan si compiacciono tra risate e pop-corn davanti a “Nascita di una Nazione di Griffith” (1915).
Quest’ultimo – tratto dal romanzo “The Clansman” di Thomas Dixon Jr. – arrivava ad esaltare le ragioni dei suprematisti durante la guerra di Secessione. Il numero degli iscritti al KKK aumentò, ci furono manifestazioni d’orgoglio razzista e la pellicola venne persino proiettata alla Casa Bianca. Hollywood aveva contribuito a costruire un immaginario: quello della “mammy”, della “maschera nera”, del negro usurpatore rabbonito da uno schiavismo necessario. Perduranti raffigurazioni idilliache per addolcire decenni di brutalità e violenza. A queste Spike Lee sceglie di dare voce, montando in parallelo il racconto di uno storico militante nero e il goffo tentativo terrorista affidato a una casalinga obesa.
Ma oggi c’è ancora da avere paura di simili imbecilli? Ovviamente sì. E ce lo dice il regista nel finale in cui una croce riarsa si prolunga in un’ellissi temporale affidata agli scontri di Charlottesville, in Virginia, nel 2017. Tafferugli, fumogeni, ventitré arresti e una vittima, alla cui memoria il film è dedicato. Donald Trump disse che c’era stato da un lato un gruppo comportatosi male e dall’altro un gruppo che era stato molto violento, rispettivamente il KKK e il corteo antirazzista. David Duke, lo storico leader dei suprematisti, ringraziò il presidente per la sua onestà e il suo coraggio. Un imbarazzo recente che ribadisce un pericolo costante.