“Kibeho”, degli Iqonde, è un martellare costante ed incessante, scandito dal tribe delle ritmiche
Anche “Edith Piaf”, terzo brano di “Kibeho”, si apre con un dialogo, questa volta non in italiano ma in francese, prima dell’esplosione brutale della traccia. Non possiamo classificarla sotto nessuna etichetta sonora, in quanto elude ogni forma stilistica, lasciando spazio a quelle che ci sembrano sessioni dettate dall’improvvisazione del momento. Questo non vuol dire che sia uscita così per caso, ma è come se avessero proposto una traccia a testa, miscelandole in un bel pezzo. Ci sentiamo di dire che, proprio in questa traccia, la band bolognese abbia messo in luce una loro prerogativa, quella dell’originalità, collocandosi oltre le convenzionalità. La seconda canzone del disco degli Iqonde è “Marabù”, che è basata tutta sul tempo e controtempo tra batteria e basso, lasciandoci respirare pochi secondi. Giusto il tempo di rifiatare, per poi essere di nuovo assaliti dall’incessante distorsione della chitarra, e dal martellare della batteria, fino a chiusura del brano.
Batteria, basso e chitarra degli Iqonde, donano, al loro disco strumentale, atmosfere di giungla nera
L’attitudine a sonorità tribali è congenita anche nello stesso nome della band, dalla lingua Zulu, giocando col suo significato, “dritto”, e regalandoci invece suoni distorti. Forse il nome è più calzante per i ritmi forsennati di alcune tracce dell’album. Ma nemmeno, poi, così schiaccianti come in puro stile cassa dritta. In “Kibeho” abbiamo apprezzato la tracotanza delle sezioni ritmiche, che in alcuni tratti vivono di pura prepotenza. Senza però nulla togliere alle parti di chitarra. Quest’ultima si fonde col tappeto sonoro dato da basso e batteria, e ne colora l’anima tribe, contribuendo a creare quella primitiva atmosfera di giungla nera. Un bel disco d’esordio per gli Iqonde, uscito a febbraio scorso, sotto etichetta Grandine Records.