Gli Emian tornano, il 23 settembre 2019, con “Egeria” e il loro pagan folk made in Irpinia. In copertina all’album troviamo una libellula, bella, aggraziata e sinuosa. Sarà lei l’animale guida a librare le delicate ali tra la miriade di strumenti che si incontreranno in questa nuova fatica. 12 tracce alla scoperta dei sapori del mondo, tra flauti, ghironde, ciaramelle, arpe, harmonium, bouzuki, santur, percussioni e chissà cos’altro.
Cliccando play, “Egeria” parte con “Malin qe kendon”, e gli Emian ci portano subito a Est. Strumenti a fiato di provenienza orientale aprono l’album con sonorità massicce, piene. È come se un imponente montagna decidesse di alzarsi e iniziare a muoversi, rimanendo, tuttavia, elegante nel suo incedere. Arrivati alla fine, delle voci iniziano a intornare un canto che invoca e presenta la seguente “Balluket e ballit moj”.
Il vasto repertorio strumentistico degli Emian, unito alla sempre pulita e cristallina voce di Anna Cefalo, creano subito la voglia di togliersi le scarpe e iniziare a danzare. Il brano proviene dalla tradizione albanese, e poco importa se i più non capiranno la lingua: testa e piedi seguiranno la melodia senza esitare.
L’esecuzione degli Emian con i loro vari e ricercati strumenti è sempre perfetta, ed “Egeria” lo conferma
Con “Danse boiteuse” l’atmosfera si fa medievaleggiante. Volendola accostare a uno scenario visivo, potrebbe raccontare l’arrivo in una città in preparazione a una festa. Mercanti ai bordi delle strade, visitatori che accorrono per ammirare mercanzie e tradizione del loco. E poi giocolieri, calde taverne accoglienti, menestrelli e risa. Aprite il portone principale, lasciate entrare anche me!
È bello viaggiare, scoprire cosa c’è fuori dal nostro Paese, ed “Egeria” lo racconta molto bene. Spesso, tuttavia, non serve allontanarsi poi tanto per scoprire qualcosa di bello e ammaliante. “Fronni d’alia” è un canto che proviene dalla Basilicata, e a differenza delle precedenti fa ballare con la mente più che con il corpo, tra le affascinanti foreste e montagne del Sud Italia.
Agli Emian piace andare a caccia di folk e tradizione. Emilio Antonio Cozza, Anna Cefalo, Danilo Lupi e Martino D’Amico sono fieri di essere italiani e campani. Anzi, per la precisione, è bene dire che sono fieri irpini! E la leggenda de “La Casa dell’Orco” – per la quale è stato fatto un video musicale – proviene proprio dalla loro terra.
Tante mani che si chiudono in un cerchio dei tanti cuori che gli Emian continuano a unire con il loro amore
Malinconici arpeggi alle corde aprono a ciò che si tingerà di tragedia. I flauti sopraggiungono a dar manforte, camminando insieme al pastore Silpa e la consorte Matulpa. La melodia cresce le sonorità si fanno allarmanti, segnando l’arrivo del crudele gigante Cronopa. Un coro fa eco tra le note «Fi, fai, fo, fum», Anna Cefalo, quasi minacciosa, narra questa crudele storia.
Il villaggio però è salvo, il gigante ha la peggio. Matulpa abbraccia anch’essa la morte in un tragico epilogo. Silpa la seguirà, lasciandosi andare a sua volta. Emilio Cozza riesce, con i suoi strumenti a fiato, a far percepire questo struggente momento perfettamente, creando una pioggia di suoni che fan da cornice al doloroso scenario, facendo stringere le mani al petto. «Fee, Fi, Fo, Fum, questa è la tomba per me».
Con “Spirti Trail” arriva forse la sorpresa più grande. È Martino D’amico a cantare – in inglese, e devo dire, con una pronuncia molto pulita – e raccontare questa storia. Una traccia che suona d’amore e fratellanza; ricorda, nell’abbraccio delle sue melodie e cori, gli insegnamenti degli Indiani D’America. Dimentichiamoci di odiare per una notte. Dimentichiamoci della paura del diverso. Raggiungiamoci, invece, intorno lo stesso fuoco per cantare insieme: «And now we need more / Now we’re singing along / this prayer to the sky / our hope of light».
Dimentichiamoci di odiare per una notte. Dimentichiamoci della paura del diverso
La delicatezza dell’arpa in “Ay Yldiz” suggerisce che siamo pronti per abbandonare l’Europa e spostarci verso l’Asia, ma facendo una sosta in Turchia. Lo si farà salpando con “Le navi di Istanbul”, cosicché il volto possa venir accarezzato dalla fresca brezza generata dal clima esotico creato dagli Emian. “OrientalSunset” è la traccia a seguire che si tinge di mistico, e ricorda le seducenti movenze di una danzatrice orientale che gioca coi suoi colorati veli.
L’esecuzione degli Emian con i loro vari e ricercati strumenti è sempre perfetta, e questo “Egeria” ne è la nuova conferma. Ognuno di essi genera melodie che si incastrano e amalgamano perfettamente con quello affianco, e c’è ancora altro da offrire. Si torna in Calabria e l’intro di “Rosabella” è affidata al Marranzano, meglio conosciuto come Scacciapensieri. E poi di nuovo le melodie del gruppo pagan folk tornano a regalare armonia uditiva, delicata e sognante.
Siamo quasi arrivati alla fine di “Egeria”. La libellula continua a volteggiare con grazia, ed è giusto e doveroso liberare i sensi per invocare insieme Dionisio, e brindare insieme in onore all’estasi, alla scintilla primordiale. La melodia è minimale, le percussioni ridondanti. I cori, soavi, enfatizzano l’Evoè, l’esclamazione rivolta al Dio. “Evoè Evoè” ipnotizza l’ascoltatore con fare idilliaco, prima di premere play per l’ultima volta.
Gli Emian tornano, il 23 settembre 2019, con “Egeria” e il loro pagan folk made in Irpinia
Infine, in “Vesuvius”, ci si desta all’improvviso dal sogno della traccia precedente. “Egeria” si chiude con una ballata frizzante ed energica, che chiude il cerchio tornando tra le terre native degli Emian. Il luogo dell’ultimo appuntamento è in cima al Vesuvio, per l’ultimo ballo. Tante mani che si chiudono in un cerchio dei tanti cuori che gli Emian continuano a unire con il loro amore.
Poco importa se ci si trova sulla cima di un vulcano attivo. Poco importa se il cratere appare minaccioso e fa paura. È proprio da quel profondo crepaccio che proviene la musica che infiamma gli animi. Sono le viscere della terra a parlare, e gli Emian le fanno cantare. Scrolliamoci di dosso la frenesia di tutti i giorni. Concediamoci un attimo di pace, per poi coltivarlo, nella speranza che duri in eterno. Penso sia questo che “Egeria” tenta di dire. «Stay folk, stay pagan, stay Emian!».