Il trio I Shot A Man con delle facce davvero minacciose
Il trio I Shot A Man con delle facce davvero minacciose

I SHOT A MAN: “Cerchiamo la libertà del suono come i bluesmen degli anni Trenta”

Oggi ospitiamo su Music.it gli I Shot A Man. Benvenuti ragazzi, raccontateci qualcosa di voi che vi piacerebbe leggere in una vostra ipotetica biografia.

Li chiamavano “Le bionde del blues”. Erano tre bellocci ma non sapevano suonare. Non si sa come abbiano fatto a fare tutti quei soldi.

I Shot A Man è il nome che avete scelto. Già da qui possiamo immaginare le suggestioni che troveremo nella vostra musica. Ma spiegateci meglio questa scelta.

Un’estate di qualche anno fa ci trovammo in un parco, e per caso iniziammo a suonare quel brano che fa “I shot a man in Reno just to watch him die…”. Era “Folsom Prison Blues”, canticchiavamo “I shot a man in To-Rino”, e immaginavamo in quante altre città avremmo sparato a un uomo. Johnny Cash non era propriamente un musicista blues, ma è stato il punto di partenza da cui abbiamo cominciato a risalire quel fiume lento e fangoso che è la mamma di tutte le musiche del secolo scorso. In un modo o nell’altro, quasi tutti quelli che hanno preso uno strumento in mano negli ultimi cento anni devono qualcosa al blues, e il nostro viaggio è iniziato lì. Quel nome è rimasto come una specie di mantra, un invito a semplificare per dire che la nostra musica sia diretta e senza fronzoli, come un colpo di pistola.

Il vostro è un blues vecchio stile, pochi strumenti, chitarra, batteria e voce. Non troviamo ad esempio il basso. Come si trasferisce tutto questo nella ritmica e negli arrangiamenti?

Manca il basso come strumento, ma non come tessitura sonora. La formazione potrebbe sembrare incompleta, ma attraverso gli strumenti che scegliamo, le tecniche e i suoni che cerchiamo, vogliamo arrivare ad avere arrangiamenti il più compiuti possibile. Negli anni ‘20 e ‘30, i bluesmen che suonavano fingerpicking, non lo facevano come esercizio tecnico: imitavano la musica che girava per il mondo. Cercavano ad esempio di riportare su una chitarra quel dialogo tra ritmo, armonia e melodia del pianoforte nel rag-time. Noi cerchiamo di riprendere quel modo di suonare, di liberarlo dall’esercizio tecnico e farlo scivolare via, ma soprattutto cerchiamo di farlo dialogare con la batteria e le percussioni. Blue prende in prestito delle tecniche e degli stili di batteria e li smonta finché non suonano bene con i cucchiai e l’asse per lavare i panni, e alla fine troviamo qualcosa che funziona solo se si suona tutti e tre insieme.

Un genere che resta di nicchia, specialmente in Italia. Cosa vi ha portato ad avvicinarvi a questo tipo di musica e, se ci sono, chi sono stati gli artisti che vi hanno influenzato e a cui guardate ancora oggi?

Che sia di nicchia non siamo d’accordo. Il blues è probabilmente il genere più ascoltato da tutti, anche se non lo sanno. Ci piace dire che certi bluesmen non sapevano di fare blues e il più delle volte suonavano le cose che sentivano alla radio e che piacevano alla gente. Il nostro è più un atteggiamento nei confronti della musica che vogliamo fare che non una scelta di genere, ci sentiamo molto liberi dall’etichetta del blues. Nel disco ci sono influenze diversissime, e non c’è nemmeno uno standard blues per come lo intende la maggior parte degli amanti del genere. Se dobbiamo fare dei nomi, possiamo prenderne a piene mani tra i padri e le madri del blues: Howlin’ Wolf, Elizabeth Cotten, Memphis Minnie, Skip James, Son House, e ovviamente Robert Johnson. Ma anche personaggi meno noti come Blind Willie Mc Tell, Vera Hall o il Reverend Gary Davis.

Tra i più recenti invece?

In anni più recenti, RL Burnside, Ry Cooder, a cui dobbiamo tantissimo, ma anche artisti più moderni e contemporanei come Jack White, l’inarrivabile CW Stoneking o Adriano Viterbini qui in Italia.

Vi piace dire che gli I Shot A Man sono stati una pessima idea, perché quando si suona il blues significa che qualcosa è andato storto. Se così effettivamente è, cosa è andato storto a voi?

È difficile rispondere davvero a domande come questa. Si rischia di cadere nella retorica del bluesman incompreso, che con il blues cerca di curare una tristezza vaga ai limiti del patetico. Secondo noi il blues, anzi “i” blues – giustamente al plurale – non sono qualcosa di estemporaneo, ma qualcosa di più profondo, che ha radici lontane e che di tanto in tanto riaffiora. Siamo cresciuti tutti e tre sani e belli, ma sempre con quella sensazione che per qualcun altro le cose fossero state più facili. Diciamo che i nostri trent’anni potevano certamente scorrere un pelo più lisci di com’è andata in realtà. Il tempo passa, alcune cose cambiano, ma forse certe ombre riaffiorano sempre, e non ci si libera mai davvero dai blues. Dopotutto, “we can’t get rid of the blues”.

Il 27 marzo avete finalmente presentato il vostro album di esordio, “Gunbender”. Una parola inventata, ma cosa significa per voi questo termine?

Una settimana prima di entrare in studio di registrazione eravamo convinti che avremmo inciso cinque o sei tracce. Il disco ne contiene undici. Sono stati cinque giorni lunghi e intensi. Doveva essere un disco in presa diretta, e abbiamo suonato i pezzi decine di volte, fino a perdere il contatto con quello che stavamo facendo; ti focalizzi su dettagli discutibili e finisci per perdere il senso del tutto. Ti dimentichi che stai facendo della musica e inizi ad eseguire le parti come se fossero scollegate dal resto. Eravamo scoraggiati e stanchi, e qualcuno ha fatto una battuta tipo: “raga, smettiamola di pensarci e suoniamo. Facciamo musica di gente che prima di prendere la chitarra in mano piegava le pistole”. Ed ecco “Gunbender”.

Siete tutti e tre di Torino: quanto c’è di questa città nella vostra musica e in “Gunbender”?

Torino è una città strana. Noi torinesi ci sentiamo molto europei, ma in certi quartieri, nelle periferie, a volte sembra che il tempo si sia fermato, e continui a ripetersi uguale a se stesso. C’è gente che non hai mai lasciato neanche il proprio isolato, ci sono generazioni che sembrano la copia delle precedenti. C’è questo lento fiume sudicio ma elegante, che sembra una di quelle vecchie foto di quando i poveri contadini mettevano l’unico abito buono per tutte le occasioni. Noi siamo questa gente, ci siamo cresciuti, sono i nostri genitori, nonni e fratelli. “Gunbender” è la storia di questi primi anni insieme, raccoglie tutte le influenze e l’urgenza del primo album, e anche se non ci abbiamo mai pensato, probabilmente ha davvero tanto della nostra città.

Nella title track “Gunbender” si sente la voce di una donna.

È uno dei personaggi di Torino, una predicatrice che sugli autobus e in metropolitana recita lunghi monologhi, ogni volta come se fosse l’ultima.

Quali sono i prossimi appuntamenti che dovremmo assolutamente segnarci?

Per tutto il mese di giugno abbiamo diverse date a Torino, Asti, Alba; a luglio saremo in Umbria e probabilmente in Veneto e Friuli, mentre a fine agosto saremo ospiti di un festival a Creta. Ma possiamo sempre venire a trovarvi. Per le date seguiteci su Facebook

Siamo arrivati alla fine della nostra chiacchierata. Grazie I Shot A Man per averci fatto compagnia. Prima di salutarci vi lasciamo l’ultima domanda da riempire con quello che volete. A presto!

Usiamo i cucchiai e le chitarre di ferro per fare la rivoluzione in una società che non ci rappresenta più.

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