Con “Gigaton” i Pearl Jam interrompono un silenzio durato 6 anni
Nonostante l’incipit ambient e riflessivo, “Who Ever Said”, apripista di “Gigaton”, esplode nel rock classico, quello cui ci avevano abituato con “Pearl Jam”, altrimenti conosciuto come “Avocado Album”. La seconda traccia, “Superblood Wolfmoon”, si avvicina in corsa, restando sulla stessa sfumatura di rock della precedente. Come per magia il ritmo cadenzato insieme a una vocalizzazione stranamente ovattata, riesce a trasportare nella platea di un live. Una canzone che ha la capacità evocativa del folk pur restando saldamente piantata nel punk.
Poi, l’inaspettato. Con quest’undicesimo album in studio, i Pearl Jam mostrano una parte prima sconosciuta della loro anima. In “Dance of the Clairvoyants” il punk si fa ‘post’ e il rock si fa ‘beat’ nel senso del modernismo dei The Who. Il grunge si vena di folk attraverso l’aiuto del supporto elettronico del sintetizzatore. Non è la prima volta che attingono al pop-folk americano. L’hanno fatto in “Vs”con “elderly woman behind the counter in a small town” e per certi versi con “Daughter”, fondendolo con il grunge. In “Dance of the Clairvoyants”, con rime ritmiche di supporto alla memoria, l’inedita creatura dei Pearl Jam sembra provenire da un’altra dimensione.
“Gigaton”, l’intimismo quasi pop del penultimo album dei Pearl Jam si trasforma in ossessione per sperimentazioni barocche
In “Quick escape”, terzo singolo estratto da “Gigaton” uscito il 25 marzo, sembrano aver preso il post rock per svegliarlo dall’usuale torpore stupefacente con ritmi più vivi. Dopo l’oracolo delle chiaroveggenti, ora gli dei si scontrano l’uno con l’altro, proprio come si uniscono le linee compositive, scambiandosi con sapienza i ruoli, proprio come spesso accade nel post-punk. La psichedelia si trasforma in tributo ai Pink Floyd con la ballata di “Gigaton”. “Alright” è anche animata da un retrogusto esotico, retaggio della produzione solista di Eddie Vedder.
“Seven O’Clock” vince il titolo per la canzone peggiore dell’album. Lo spirito di Bono Vox sembra essersi impossessato di Eddie Vedder. Una confessione prolissa insostenibile dalla composizione musicale scelta. Nelle strofe chitarra, basso e synth sembrano sparire totalmente per lasciare la voce da sola con la batteria. Ma l’effetto intimistico non funziona. È un buon momento per rimpiangere i tempi di “Released”, che anche nel lungo strumentale finale riusciva a strappare lo stomaco dall’ombelico.
Il ‘Gigaton’ per i Pearl Jam si fa misura dell’ineffabile
Con la settima traccia il torpore e la noia abbandonano le membra, tese all’ascolto tanto quanto le orecchie. Sano grunge, graffiante a malinconico di “Never Destination” sembra proseguire naturalmente in “Take The Long Way”. Con “Buckle Up” i Pearl Jam spezzano il ciclo, per tornare al modernismo dei The Who. Superata la metà è davvero tutta in discesa. L’aria da ‘beat generation’ che alimenta “Gigaton” si fa british fino in fondo. Persino con note di virtuosismo che li porta ad usare, senza abusare, del synth non solo come un tappeto su cui adagiare il rock, ma come protagonista.
Come da migliore tradizione, giunge la ballata acustica. “Comes Then Goes” riesce dove “Seven O’Clock” aveva fallito. La confessione tra autore e ascoltatore si realizza. Perché quando una lirica magistrale è vestita di un abito accettabile, riesce ad entrare nell’anima del destinatario senza essere fuori posto. Quasi alla fine del nostro viaggio tra le miriadi di particelle che compongono l’energia di “Gigaton”. Questo disco si fa luogo di convivenza tra incredibilmente diversi. Come in “Retrograde”. La voce di Eddie Vedder finalmente si riscalda. Eleva, tra percussioni latineggianti, un potente inno agli elementi della natura, che da scenografia diventano soggetto. L’ambient da contesto si fa argomento. La chiusura di “River Cross” è sfacciatamente politica, in chiave psichedelica.
“Gigaton” dei Pearl Jam è un album piacevolmente schizofrenico
Nell’undicesimo album in studio della band di Seattle è impossibile non riscontrare un’attenzione maggiore per il sottobosco di effetti che intervengono a sostengono del vocalist. Strati di chitarre, percussioni morbide, basso potente, sintetizzatore alienante. Per la prima volta in quasi 30 anni di onorata carriera, i Pearl Jam hanno scritto un album più strumentale che canoro. L’orecchiabilità è mantenuta stuzzicando la curiosità delle orecchie con un effetto iniziale, propagarlo in sordina per tutta la canzone, e trasformarlo in leitmotiv alla chiusura.
“Gigaton” è spaccato in due. È come se l’intimismo quasi pop di “Lightning Bolt” si sia trasformato in ossessione per sperimentazioni moderniste e barocche. Sono poche le tracce chiaramente riconoscibili come pezzi dei Pearl Jam. “Who Ever Said”, “Never Destination” e “Take The Long Way”. Gli integralisti del grunge probabilmente non riusciranno ad apprezzare fino in fondo quest’ultimo album. Ma avranno smesso di ascoltarli ben prima di “Lightning Bolt”, che comunque aveva diviso l’opinione degli affezionati. Al netto di un’ottima produzione, consolidata la fiducia con Josh Evans, l’album si dimostra piuttosto diviso in due anime. Non era forse il caso di unire le tracce, più sfacciatamente grunge a “Can’t Deny”, che da “Gigaton” è rimasto fuori?