Come ogni lavoro di Roberto Latini, la fruizione dell’opera racconta in primis un processo di costruzione. Ogni gesto-parola è auto-analisi di sé stesso, è memoria di un trauma. D’altronde senza trauma non ci sarebbe nulla da rammemorare. Tutto è costruito nella carne dell’attore, tutto è necessariamente vita prodotta in scena, tutto è al contempo finzione di una vita altra che si fatica a incarnare.
Il performer PierGiuseppe Di Tanno è il soggetto di questa missione del farsi carne, del farsi testo di un’urgenza a vivere che non rimanda altro che a sé stessa. Come appunto nella commedia pirandelliana. Che è mixata, strizzata, spolpata: PierGiuseppe Di Tanno appare all’entrata in sala del pubblico, oltre un sipario semitrasparente, assiso su un trespolo, davanti ad un telo bianco, di spalle. Sarà così co-stretto a esercitare sul palco-nel-palco l’intero travaglio dei celebri sei di cui sopra. Quando si alza il sipario si nota la maschera a mezzo volto, dispositivo metonimico che evoca il tema del doppio nella sua natura mortifera.
Roberto Latini esercita dalla regia un passo di sontuoso confronto con due testi capitali della cultura occidentale
L’interpretazione che segue è tutta riassumibile nel gioco corporeo con l’oggetto maschera: negli stropicciamenti e nelle dissociazioni, nella perfetta intensità che denuncia la fatica a vestirla. Fatica e necessità, poiché, come per i Sei personaggi in cerca d’autore, la maschera è unico rifugio per una possibile identificazione.
Il flusso scenico traccia un delicato ma calzante parallelismo con l’opera pirandelliana. Nel frullato testuale si mantiene una paradossale quintessenza drammaturgica. Vi si consuma de facto quell’incesto che Luigi Pirandello si limita a ventilare nell’atto secondo. Il padre, la madre, la figlia, il figlio, il figliastro, il giovinetto cozzano nel corpo di PierGiuseppe Di Tanno, eruttano un magma polimorfo che stigmatizza la tragica consapevolezza d’esser molti. La materia resta incandescente in grazia di un’interpretazione vibrante, d’una parola posata con grazia solida, di un corpo aperto a farsi stilettare da infiniti lemmi.
Il padre, la madre, la figlia, il figlio, il figliastro, il giovinetto cozzano nel corpo di PierGiuseppe Di Tanno, eruttano un magma polimorfo che stigmatizza la tragica consapevolezza d’esser molti.
L’attore appare come un San Sebastiano alla colonna, o un anacoreta in leggins di latex. Obbligato da un intimo desiderio di elevazione a far dono di sé in forma di patimento. Offerta sostanzialmente erotica: di fronte al martirio psichico del personaggio e alla bravura del performer nasce nello spettatore il desiderio di averne di più, di averne ancora. Encore / un corp, sull’assonanza dei termini francesi Jacques Lacan poneva infatti il significato dell’amore come incessabile tensione della parola a farsi corpo. È proprio questa la natura della tensione messa in scena da Roberto Latini e PierGiuseppe Di Tanno.
Anche la struttura di “Sei” sfrutta la punteggiatura pirandelliana: come quando nei Sei personaggi in cerca d’autore cala improvviso il sipario, errore tecnico del macchinista, così Roberto Latini vela la scena per cambiare passo. Il podio è orizzontalizzato, diviene la bara ove è calata la maschera. Ma non è un oggetto diverso, si tratta appunto della natura rivelata del teatro come spazio narcisistico. Qui Roberto Latini e PierGiuseppe Di Tanno attaccano un frammento da “Amleto”, la scena dei becchini (atto V, scena I).
“Permettimi. Qui sta l’acqua – bene. E qui sta l’uomo – bene. Se l’uomo va a quest’acqua e s’affoga, fatto è, volere o nolente, che ci va, ascoltami. Ma se questa acqua va a lui e l’affoga, non è lui che affoga se stesso. Ergo, chi non ha colpa della sua morte non accorcia la sua vita”.
Si tratta di un passaggio in cui è più percepibile la sensibilità dell’attore, che costruisce una danza attorno al sarcofago col suo corpo nerboso e scattante, trasgredendo la verticalità imposta della prima fase. E in nessun caso calando l’intensità recitativa, anzi seguendo un crescendo, spesso adottato nei lavori del regista, che si avvale dell’irruzione del sonoro, con le musiche di Gianluca Misiti e un microfonaggio cupamente effettato.
Il sarcofago diviene vasca, mescolando l’acqua in cui si uccide Ofelia e quella dove (non) affoga la bambina pirandelliana. Sul finale, avviene la profezia del più-vero-del-vero, dell’oltrepassamento d’ogni volontà autoriale. Un cannone spara-schiuma che dovrebbe inondare l’attore, snudato e pronto a morire con l’opera, s’inceppa. La schiuma diventa una parola, che PierGiuseppe Di Tanno evoca per materializzare quella mancata. Pochi istanti di sublime, emozionata confusione. Se non c’è schiuma, la bambina non può davvero morire. Ed è per questo che sarà condannata a tornare sulla scena. D’altro canto, come gridano più volte l’attore e Luigi Pirandello, “Il guaio è questo: che è tutto finto, qua!”.