Federica Carruba Toscano ritratta da Dalila Romeo in una foto promozionale di "Immacolata Concezione".

IMMACOLATA CONCEZIONE: nudi di fronte alla nudità di un corpo sacro

Ogni inizio è un mettere al mondo, e sappiamo tutti quanto sia il momento spesso più critico di un processo. Nelle arti performative, l’origine trascende la mera, e sia pure problematica, captatio benevolentiae: imprime al corpo dello spettacolo una qualità precisa. Che sia un mero settaggio del piano d’ascolto, sorta di chiave di violino, o vero e proprio genoma, è questione di estetica. Sta di fatto che ne dipende fortemente quello stato di abbandono e fiducia che ci permette di godere a teatro. Eppure di quanti spettacoli ricordiamo l’incipit più del finale? “Immacolata concezione” di Vucciria Teatro è per chi scrive uno dei pochi spettacoli in cui il segnale introduttivo rimane impresso esplicitamente, poiché è in qualche modo contenuto nel proseguo. Quel segnale è uno scampanellio in crescendo, che muove dal fondo della sala, oltre il pubblico. Uno di quei suoni acuti che, riflesso ancestrale, solleticano la nuca.

Poi cinque attori attraversano la platea, verso la scena. Dal piano acustico erompe il visivo. I cinque sono pastori e conducono una ragazza al guinzaglio: nuda, le forme abbondanti, un sorriso ineffabile a schiantare la brutalità della coazione. È portata sul palco e intronizzata, o reclusa, in un ciborio circolare che sta al centro della scena, del resto occupata da alcuni manichini vagamente dechirichiani. Sembra una cappella devozionale girevole, o forse ancor più un tempio pagano fatto di legno, come le prime costruzioni sacre greco-romane. Un inizio potente, sapientemente sinestetico, che immerge in un paesaggio polveroso, aureo, caldo. Atmosfera convalidata dal disegno luci. La giovane in vincoli è Concetta, alias Federica Carruba Toscano, barattata dal padre, per debiti, in cambio di una capra gravida. Costretta, senza opporre rimostranza alcuna per il suo destino, a lavorare nel bordello di Donn’Anna, un eccezionale Joele Anastasi en travesti, anche regista e drammaturgo.

“Immacolata concezione” fotografa una faglia, un movimento lentissimo ma incoercibile, destinato a provocare un’esplosione.

Il bordello è inscenato nell’edicoletta mobile, ostensorio della carne di Concetta che accetta di offrirsi a tutti i clienti senza apparente turbamento. Il suo personaggio accede attraverso la stereotipizzazione dei sentimenti al valore di un’icona. Ogni paesano può proiettare su Concetta la propria domanda di ascolto, dolcezza, purezza. Un intrico di pulsioni complesse, a volte infantili, sempre covate nel rimosso. Nel loro sviluppo s’inscrive la narrazione. Concetta è come una Venere di Willendorf, col sorriso di una kore. Un palinsesto di tracce colte, evocate con sottile piglio antropologico, a evidenziare la genesi raffinata dell’opera, ma anche una costruzione drammaturgica e registica fortemente direzionata. Poco sembra lasciato alla cosiddetta drammaturgia dell’attore. In “Immacolata Concezione” prevale la frontalità dell’icona, perpetrata negli alternati monologhi in cui i personaggi apostrofano il pubblico interrogandolo con lo sguardo e la posa. Come su binari diversi, ciascuno sviluppa con Concetta la sua propria vicenda.

Quattro sono le storie segnate dall’incontro con l’Immacolata, profondamente polarizzate e messe in crisi di fronte ad un lato di sé che l’”apparizione” illumina. Enrico Sortino è Don Saro, possidente del paese, figura mafiosa ante-litteram. A partire da uno ius primae noctis su ogni nuova impiegata del bordello, ingenera un amore ossessivo per Concetta. Ivano Picciallo è Don Gioacchino: stregato dalla purezza di Concetta, si strugge lamentandone la disintegrazione morale a opera del via vai di clienti. Alessandro Lui è Turi, che conosce la forma d’amore forse più autentica per la protagonista. È infatti l’unico disposto a incontrare l’umanità individuale di Concetta. Nel loro rapporto s’innesta il piano narrativo ulteriore dell’antica favola di Colapesce, che ribadisce en abyme quel senso di tragedia tellurica indissolubilmente siculo. “Immacolata Concezione” tocca indubbiamente una dimensione poetica locale, con accenti che ricordano la lingua e il tono delle pagine più astratte di Tomasi di Lampedusa.

“Immacolata Concezione” tocca indubbiamente una dimensione poetica locale, con accenti che ricordano la lingua e il tono delle pagine più astratte di Tomasi di Lampedusa.

C’è infine la figura di Donn’Anna, la più vivida. Messa anche lei a nudo dal confronto con Concetta, quando questa s’incaponisce a perpetrare la gravidanza dovuta a Turi. Gravidanza che è scandalo e motore dello scontro fra i quattro personaggi.  “Immacolata Concezione” è come una giostra: i quattro si muovono, fisicamente e metaforicamente, lungo le linee tangenziali di un perno invisibile che è Concetta. Oltre a loro, gli stessi attori danno vita alle figure macchiettistiche del paese e alle altre ragazze del bordello, presenze comiche, agite quasi come marionette. Occasione per un controcampo ritmico e stilistico che rompe la direzionalità granitica dei quattro personaggi, alleggerendo la narrazione. Restando pur sempre su una giostra, entro un movimento ciclico in cui nulla più avvero cambiare. “Immacolata concezione” è per certi versi una tragedia della fissità, come fisso Colapesce è destinato a rimanere, sotto la Sicilia, a sostenerne la Storia.

Siamo d’altro canto, nella terra dei Malavoglia. Eppure “Immacolata concezione” fotografa una faglia, un movimento lentissimo ma incoercibile, destinato a provocare un’esplosione. Ritagli di giornale e brani di conversazione collocano la vicenda alle soglie della Seconda guerra mondiale. Il disordine emotivo scatenato dall’incontro con la sacralità generatrice dell’eterno femminino adombra un’incapacità. O, meglio, la perduta capacità umana a configurarsi con il Sacro senza dissiparlo.

Exit mobile version