Titolo e artwork si incontrano nel delineare la linea concettuale di “Solo un sogno” di Vaniggio
Un presentimento che contagia sia il piano sonoro che quello compositivo. Neanche la copertina riesce a suscitare quell’angoscia che in parte il titolo suggerisce. C’è l’ingombrante eredità del pop a sbilanciare la reazione alchemica tra gli spunti compositivi che Vaniggio prende in considerazione nella scrittura. Sicuramente un disco ben prodotto, ma ad impatto sonoro non riesce a essere incisivo come vorrebbe. Sul fronte lirico, i testi di “Solo un sogno” risultano intuitivi quando non prevedibili. Da bassista meticoloso, almeno, non incappa nelle banali forzature metriche che spesso si sentono nell’indie pop. Piuttosto, Ivan Griggio si inserisce pienamente in quella tradizione di pop ruvido che tanto è piaciuta dagli anni ’90 in poi. Ci sono momenti nell’album in cui prova a sfuggire dall’etichetta che, minuto dopo minuto, è siglata dall’autore stesso intorno a “Solo un sogno”.
Lo stile performativo scelto da Vaniggio in “Solo un sogno” è ereditato da Vasco Rossi e Luciano Ligabue
I riff più elaborati dell’album sono in “Stessi sbagli” e di “Amoreuncazzo”. In quelle tracce Vaniggio installa qualche virtuosismo in una metrica semplice, risultando addirittura ampolloso rispetto al concept strutturale scelto. La vocalizzazione di “Una carezza non vuol dire amore” sembra davvero un tributo al cantautore di Zocca. Persino il video della titletrack risulta didascalico rispetto al testo: caffè chiama caffè, mani evocano mani, e dove è impossibile materializzare un concetto c’è la soggettività dell’autore a ingombrare l’obiettivo della telecamera. È difficile oggi, se non impossibile, creare qualcosa di nuovo, ammesso che si abbia qualcosa da dire almeno con le parole. Vasco Rossi e Luciano Ligabue potrebbero essere un punto di partenza per elaborare un discorso proprio. È un peccato che il bassista svizzero sia rimasto impantanato nei modelli.