Ciao ragazzi! Iniziamo subito con il terzo grado: il vostro nome è un tributo all’opera di Sorrentino o mi sono perso qualcosa?
L’opera di Sorrentino ha come fulcro la provocazione, l’instabilità e la complessità di una giovane figura papale che nessuno prende sul serio; è proprio questo il senso di The Young Nope: crediamo che nella scena musicale italiana, essendo giovani e nuovi, abbiamo poche possibilità di essere considerati al livello delle altre band, di cui comunque stimiamo il lavoro. Il nostro nome è questo, una critica all’essere prevenuti nei confronti dei giovani e dei loro progetti. Più che un tributo, Sorrentino è stato un’ispirazione.
Chiediamo sempre agli artisti che ospitiamo sulle nostre pagine di raccontarci un ricordo legato alla musica, un segreto mai pronunciato ad alta voce. Qual è il vostro?
Di ricordi musicali ce ne sono diversi: dal primo disco, al primo strumento abbracciato, al primo concerto… Sono sensazioni che si portano dietro per tutta la vita. Un ricordo particolarmente vivido è il primo giorno che ci siamo incontrati per cominciare questo progetto e abbiamo suonato insieme, avvertendo tutti la stessa cosa: eravamo fatti per suonare insieme, avevamo l’alchimia giusta.
Siete giovanissimi e avete fondato la band di recente, eppure avete un sound ben definito, maturo e ricco. Mi avete ricordato i grandi nomi del rock di fine anni ’60, in chiave moderna ovviamente. A chi vi ispirate?
Il nostro sound si basa sulla ricerca della nostra identità musicale, senza perdere mai la bussola del buon gusto. Di modelli ce ne sono svariati. Ci lasciamo sicuramente condizionare involontariamente dai nostri ascolti, ma non ci ispiriamo ad un particolare gruppo o ad un particolare genere, perché siamo dell’idea che ogni buona band debba avere un proprio sound definito che li contraddistingua dagli altri.
C’è del tormento nelle vostre tracce. La musica ha una funzione catartica per voi?
Per certi versi sì: sia l’atto di suonare che di cantare è di per sé un modo per purificarsi, ci sfoghiamo così. Nei nostri testi i temi trattati sono vari, non sono sempre davvero accaduti ma sono sicuramente reali, sono emozioni che viviamo ogni giorno. La musica che facciamo diventa la colonna sonora della nostra vita, il suono e la parola che sentireste se fosse un film, ma non amiamo parlarne esplicitamente, vogliamo che l’ascoltatore abbia la sua interpretazione del testo.
Il vostro EP Satellite è un’opera curata nei minimi dettagli. Oltre alle tracce davvero ispirate, ho apprezzato registrazione e mixaggio a regola d’arte e la grafica fatta a mano. Ci sono state delle difficoltà durante la creazione di questo progetto?
No, a parte imprevisti di natura organizzativa, con le registrazioni che vennero rimandate di una settimana, o fisici, ovvero un problema al tallone del nostro batterista, le registrazioni sono filate lisce. Siamo molto soddisfatti della riuscita dell’EP. Il nostro fonico ha fatto un gran lavoro considerando che il tutto è stato registrato, mixato ed editato in soltanto due giorni, ed è esattamente come lo volevamo, il più naturale possibile e vicino al suono che riusciamo a proporre nei live. Per quanto riguarda le grafiche, sono un elemento fondamentale sul quale puntiamo molto. Sono realizzate da Claudia, che cogliamo l’occasione per ringraziare. La nostra intenzione era quella di rappresentare in maniera efficace a livello visivo quello che proponiamo musicalmente. Abbiamo scelto quella copertina poiché crediamo sia in grado di risaltare le nostre singolarità ma al tempo stesso fornire un’immagine unitaria del gruppo
Come vedete la scena italiana? C’è qualcuno che apprezzate? Le autoproduzioni sono il futuro della musica o le case discografiche continueranno a dettare legge ancora a lungo?
La scena italiana ha tanto da dare. È ostacolata da quelle che sono le tendenze del nuovo millennio che non stanno facendo altro che rendere la musica uno strumento a soli fini di lucro, ma è la direzione che ha preso da diversi decenni. Ultimamente con questa grande espansione del genere indie, siamo curiosi di vedere se questo, quello autentico, arriverà ad una grandezza come quella del rock negli anni ‘70 o se rimarrà solo un altro modo di definire il pop. Le case discografiche dovrebbero essere una risorsa per gli artisti emergenti, e gli artisti emergenti dovrebbero essere una risorsa per le case discografiche. Ma esistono ancora, e sono così necessarie? Ormai le poche rimaste si curano soltanto dei prodotti ideali per la vendita: la pop music, ed i grandi nomi; noi abbiamo deciso di intraprendere la tortuosa strada dell’autoproduzione, preferiamo rimanere indipendenti ed autentici.
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