È nota la storia della lunga e disumana reclusione dei tre leader del movimento radicale Tupamaros che, affiliato al sindacato uruguaiano, fu bandito durante il colpo di stato militare. Nella morsa del golpe, nove rivoluzionari furono portati via dalle celle carcerarie e sottoposti a un drastico isolamento, più simile alla detenzione da parte di aguzzini che a un provvedimento dettato dalla legge. Tra questi, i tre membri di spicco del movimento e protagonisti del film. Arrestati nel settembre 1973, furono rinchiusi come ostaggi per 12 anni in diverse prigioni che, in molti casi, non erano celle ma pozzi o porcilaie interrate. Torturati brutalmente, umiliati nel fisico e nella mente, i tre uomini hanno resistito la fame, il degrado, l’isolamento e la follia militare fino al rilascio avvenuto nel 1985. Ripristinata faticosamente la democrazia in Uruguay, due di loro diventeranno senatori, mentre Josè Mujica sarebbe diventato presidente dal 2010 al 2015.
“Una notte di 12 anni” è un film sganciato dalla memoria locale, e va verso il significato universale ed esistenziale della lotta civile.
“Una notte di 12 anni” ricostruisce quest’oscuro capitolo dell’Uruguay senza ricorrere a una grossolana propaganda politica. Il film è completamente rivolto alle persone piuttosto che alle follie del potere. Diversamente da “Hunger”, il dramma di protesta irlandese di Steve McQueen, Álvaro Brechner vuole mostrarci come anche negli abusi più disumanizzanti, la volontà di vivere sia la qualità più resiliente per sopravvivere. Il regista evita l’opera militante percorrendo l’asse della filosofia esistenzialista: l’esistenza precede l’essenza. L’essere umano viene costantemente etichettato fino a che queste etichette diventano la sua essenza. Il film si configura come un lungo percorso di ritorno, dall’essenza all’esistenza. La condizione umana in una cella di pochi metri annulla l’orizzonte, mescola insieme il giorno e la notte, l’oggi si confonde con il ieri, il sogno si intreccia alla veglia. Tutto ciò che ci rende persone scompare. La capacità di mettere in ordine viene annullata e il tempo inizia a diventare ciclico.
Álvaro Brechner gestisce l’immagine come un quadro kafkiano per consentire un dibattito meno specifico e più astorico. I tre protagonisti vengono ridotti a scampoli di uomini e spinti a camminare nell’oscurità fino alle soglie della Gorgone, scogliera della follia più profonda. Il modo trovato per rimanere in vita è racchiuso in una frase di Jean-Paul Sartre: «ogni uomo è quello che fa con ciò che hanno fatto di lui». Epigrafe essenziale che accentra la questione del determinismo e della libertà per farne il perno su cui si avvita senza attriti l’intero film. La narrazione consente agli spettatori di connettersi ai dilemmi dei protagonisti e alla loro intensa sofferenza. L’empatia è immediata e ben barricata dietro suoni e immagini sensoriali, in particolare nelle allucinazioni e nel codice di comunicazione battuto sui muri. Il regime militare non intende annientare i tre uomini. «Poiché non possiamo ucciderli, facciamoli impazzire», chiarisce un ufficiale penitenziario.
“Una notte di 12 anni” ricostruisce l’oscuro capitolo dell’Uruguay senza ricorrere a una grossolana propaganda politica.
Dal costante degrado ai piccoli momenti di illuminazione, l’emozione oscilla sfrenata tra l’eccessivo e l’accattivante grazie al tono border, ora elegiaco ora paranoico. Flashback e deliri circostanziano gli arresti e drammatizzano la perdita mediante gli incontri coi familiari. Le lettere d’amore scritte da Rosencof per procura di un romantico sergente, l’aiuto di un medico compassionevole per la mente fratturata di Mujica, l’apice dell’assurda burocrazia militare con una latrina sullo sfondo. Barlumi nella dignità svilita che però non serbano speranza per addolcire l’incubo. La storia e il titolo preannunciano una fine. Ma quei 4.323 giorni accumulati sullo schermo hanno incrinato l’essenza dei tre protagonisti, come sottolinea la struggente “The sound of silence” di Sílvia Pérez Cruz. Gli interpreti, tutti lodevoli, pur singolari nella personalità e nell’aspetto vengono accomunati nella sorte, tanto che in determinate scene diventa difficile distinguerli. L’effetto è intenso, come a sottolineare l’identica degradazione che l’annichilimento prolungato produce negli uomini.
“Una notte di 12 anni” è uno di quelle opere preda d’incantesimo. Un film in cui tutto ciò che era prevedibile diventa inaspettatamente efficace. Questo nido del cuculo sudamericano riesce ad a alleggerire la facile narrazione trionfali dello spirito umano e a contraddire la violenza della situazione impugnando l’arma opposta a quella dei militari: l’umorismo. Irridere ciò che ci fa paura è un’arma di ribellione intellettuale. Ecco perché la prima cosa che le dittature fanno è attaccare proprio l’umorismo che, spontaneamente, fuoriesce dal conflitto umano tra la ricerca di significato e il silenzio assoluto del mondo. Alavaro Brechner fonde grottesco e poesia per illustrare l’oscurità di un regime autoritario. Una superba storia visiva sulla persistenza e sulla resistenza che lancia anche un potente promemoria dell’importanza delle leggi internazionali per i diritti umani, e di come il loro disprezzo possa portare a perversi, inumani e persino diabolici esperimenti.