“Behind the Mask I” è il prodotto finale di una ricerca musicale durata sette anni
“Behind the Mask I”, però, non rientra decisamente tra gli album “apparecchiati” alla meno peggio, magari spruzzando qui e là qualche fill orientaleggiante a coprire una base malfatta. Ci troviamo, in realtà, di fronte a un progetto che mostra con orgoglio tutti i suoi anni di produzione. Un lavoro in cui la cura tecnica è lampante, così come la notevole quantità di trovate creative e passaggi riusciti. Tiago Della Vega, chitarrista della band, è l’ex detentore del Guinness World Record per la velocità d’esecuzione e ascoltando l’album, la cosa non sorprende. Riff velocissimi e potenti si rincorrono senza posa, limati soltanto dagli inserti orchestrali e dalla tastiera di Tiago Zunino. Il tono principale dell’album è un elaboratissimo power metal orientaleggiante, come una elaborata, ruvida e graffiante eco di “Gates of Babylon” dei Rainbow che rimbalza per settanta minuti, sempre diversa ma coerente a se stessa.
Emerge da ogni canzone l’impressionante apporto tecnico di tutta la band
Dietro questa facciata, non mancano di emergere altre suggestioni. Se, infatti, tracce come “The Mortal Dance Of Kali”, “Hassan Tower” e “Eyes of Ra” rientrano pienamente in questa atmosfera mediorientale, “Andaluzia” è una ballata in cui il vocalist Guilherme de Siervi può istrionicamente calarsi nel ruolo di mariachi, sfoggiando una duttilità notevole. Forse la tastiera, in questa traccia, andava accantonata parzialmente, perché a mio avviso fa a pugni con il flamenco della prima parte, ma in generale si tratta di un excursus positivo.
La varietà di ispirazioni dona freschezza alla classica formula progressive metal
Così anche “The Red Masquerade” vira il tono su un progressive metal puro, durissimo, preciso e mitragliante (l’intro di chitarra è davvero supersonica). Le suggestioni sono molte, dalla gitana “Gipsy tragedy” a “Shokran”, che ci porta in Marocco. Tracce che funzionano e dalle quali trasuda uno sforzo tecnico corale di tutta la band che non può dispiacere. Nonostante non si tratti di musica nuova o pionieristica, mi sento di dire che la settennale fatica dei Vikram ha originato un ottimo album, che fa della varietà di atmosfere e dell’impressionante prova tecnica i suoi maggiori punti di forza. Lo consiglio caldamente a chi ha ascoltato i Myrath e voleva qualcosa di più progressive.