“Parco Gonzo” è un piccolo assaggio, un esempio di quello che hanno in testa I Casini di Shea quando scrivono musica: fare macello. I riffettoni di chitarra sono onnipresenti, incalzanti a metà strada fra heavy e punk e sicuramente sono di quelli che fanno “battere il piede”. La pecca di uno stile così riconoscibile è quello di avere una derivazione quasi accademica dai loro predecessori nel genere.
Ancora è presto per attribuire a I Casini di Shea un nome e un cognome musicale, ma intanto “Parco Gonzo” ci offre una loro fototessera
C’è molta distorsione e tanti dive bomb sbucati forse dagli ascolti dei gruppi dei tardi anni ‘80 che non si inseriscono al meglio nel 2020. Ed è un peccato perché la sezione della voce è degna di nota, i testi sono interessanti e pure le digressioni più “irregolari” mostrano il carattere potenziale de I Casini di Shea. Potenziale perché è ancora presto per attribuire al trio un nome e un cognome musicale, ma intanto “Parco Gonzo” ci offre una loro fototessera. Audaci nel proporre un sound muscoloso, o nel chiudere l’EP con una suite di otto minuti.
Per I Casini di Shea l’ideale sarebbe ripartire dalla chiusura di “Parco Gonzo”: in quel brano finale c’è la chiave di volta per identificarli nitidamente. Libertà compositiva e consapevolezza del proprio stile. Per il momento forse è presto per affidarsi a espedienti come registrare tutto in presa diretta (come hanno fatto nell’EP), è una scelta quasi pretenziosa. Certo, preserva la genuinità della band, ma ne fa uscire un lavoro quasi da garage di casa più che da garage band in stile USA. Siccome le basi è chiaro che ci siano, insistere su quelle è la via.