Gli I Hate My Village ritratti da Ilaria Maiocchietti. Da sinistra: Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle).
Gli I Hate My Village ritratti da Ilaria Maiocchietti. Da sinistra: Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle).

I HATE MY VILLAGE: “L’Africa sta portando in Occidente una ventata di aria fresca”

Diamo il benvenuto sulle pagine di Music.it ad Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours). Vorrei iniziare parlando subito del vostro nuovo progetto: come nasce I Hate My Village?

ADRIANO: I Hate My Village è nato dall’unione tra me e Fabio Rondanini a Roma. Entrambi gravitavamo attorno a una scena romana legata al cantautorato, ma mai avevamo avuto l’occasione di suonare insieme. Fino a due/tre anni fa quando, non ricordo dove, ci siamo incontrati e lasciati con la promessa di risentirci. E così fu. Ci siamo chiamati e detti: «Vogliamo divertirci insieme in sala prove?». Come me, sapevo che anche Fabio stava cercando di far evolvere il linguaggio musicale verso l’afro, e sapevamo che avremmo vissuto una certa energia. Così ci siamo visti e abbiamo iniziato a suonare. Eravamo in una stanza tipo questa e ricordo che alla fine di ogni jam ci stupivamo per la semplicità con cui ci divertivamo. Questa musica è venuta fuori proprio così, fresca. Ogni incontro era alimentato da questi entusiasmi. Abbiamo sostanzialmente capito che insieme potevamo fare qualcosa di bello con la musica.

E quand’è che l’avete capito?

FABIO: Bella domanda! Non c’è un momento preciso, non credo. Essendo due professionisti, immagino che entrambi speravamo scattasse una scintilla. E noi l’abbiamo colta dal primo momento. Poi, con più consapevolezza ci siamo esposti e lasciati coinvolgere l’uno dall’altro. Conoscendoci siamo diventati anche amici. È stato sacrosanto, quasi doveroso registrare le cose che stavamo facendo insieme. Senza imporcelo, volevamo divertirci e l’abbiamo fatto. Poi, nel mercato italiano non è che c’è da fare chissà quale affare col diavolo per suonare. Sennò lo faremmo! (Ride).

A: È come quando sei ragazzino e segui le cose belle. E probabilmente questa è la cosa più bella che si possa fare. Un artista in generale, secondo me, deve seguire la creatività. Tra noi, era accaduto un atto creativo. Quando vai d’accordo con una persona la cerchi perché sai che puoi condividerci delle cose. E il bello di questo rapporto tra me e Fabio è che non è solo musicale, ma anche umano. Poi, ci siamo anche ritrovati a vivere lo stesso ruolo. Nel senso che seppure entrambi abbiamo dei progetti – io i Bud Spencer Blues Explosion e lui i Calibro 35 – tutti e due andiamo verso un’esplorazione. La nostra non è voglia di arrivare in vetta. È voglia di girare, di stare con le antenne alzate, recepire energia ed imparare.

In particolare, questo progetto esplora un certo tipo di sound che viene dall’Africa.

A: Esatto. Siamo entrambi appassionati e abbiamo un approccio totalmente musicologico verso la musica africana. Pensiamo che possa essere innovativa. Sai, è come se l’Africa stesse portando in Occidente una ventata di aria fresca. Per me, sotto il punto d vista culturale e umano, ma anche artistico e musicale. Effettivamente, tutte le forme della musica africana, dall’afro beat, al desert blues, la musica tuareg, l’high life, hanno una geometria molto diversa da quella cui noi siamo abituati.
Il nostro approccio però non è da colonizzatori. Non vogliamo andare a prendere qualcosa per portarlo qui. Vogliamo studiare quel linguaggio e renderlo parte della nostra esperienza. Poi, noi siamo di Roma, abbiamo un nostro background. I Hate My Village fa la propria musica. Studiare con entusiasmo qualcosa che ci piace ci ha portato semplicemente a noi. E credo che quello che facciamo sia molto originale.

F: Anche per il nome! Il fatto che ci sia questo gioco di parole tra hate e ate, vuole dire che in un certo senso abbiamo imparato una lingua, ma che ancora non la pronunciamo bene. Sia io che Adriano abbiamo collaborato con Rokia Traoré e Bombino, lei cantante maliana e lui musicista tuareg. Siamo entrambi appassionati di musica africana, ma questo non vuol dire che conosciamo a fondo questa lingua, anche a livello culturale. I Hate My Village è Il risultato. Una chiacchiera tra di noi in questa nuova lingua. Chiaramente in chiave occidentale. È difficile dire che facciamo musica africana. Non lo direi. Non direi neanche che il nostro sia un disco di world music.

Sono felice che il nome scelto sia uscito fuori perché davvero vorrei conoscerne la genesi!

A: La storia del nome I Hate My Village ha una genesi, ma diverse direzioni. Praticamente viene da un cannibal movie. Una volta, incuriosito da certe cose della cinematografia africana, sono capitato su Google davanti a diverse copertine di produzioni africane. E c’era il poster di questo film horror del Ghana con un disegno che ci è piaciuto subito. Era assurdo. Bruttissimo però bellissimo, non saprei come altro dire. Era super! Poi, il gioco di parole tra odiare e mangiare. E comunque, sempre il tuo villaggio, il tuo posto. Questa visione ci affascina. Se ci si chiama un film “I Hate My Village”, perché non un gruppo?

Lo avete poi visto “I Hate My Village”?

F: Non lo abbiamo trovato! Però ci siamo veramente innamorati delle locandine! Sono meravigliose. Hanno di quel trash che secondo me è geniale. Anche il sito dove lo ha trovato Adriano ci piaceva da morire. “Modern Ghana” si chiama. Ci stanno dentro un sacco di cose divertenti. Pure per questo penso che quando si parla di Africa si dovrebbe approfondire. È come se dentro quel continente ce ne fossero dieci!

A questo proposito mi viene spontaneo domandare: ci siete mai stati in Africa?

A: Sì, con Rokia Traoré. Io sono stato in Algeria, la profonda Algeria. Quello che ho visto io dell’Africa è un posto povero. Stimo Fabio che è andato in Mali senza remore, mentre io qualcuna me la sono fatta. Anche se sta a due passi, è un mondo proprio diverso dal tuo. Ho imparato tanto. Andando con Rokia, che è una cantante meravigliosa. Ho vissuto dei bellissimi momenti e li ho condivisi con persone che la circondavano.
Poi, ti dirò. Mi è rimasta impressa una cosa che mi ha fatto notare Bombino: i bambini africani a tavola, a differenza degli europei, non si permettono mai di piagnucolare. Sono educati al rispetto. Ho pensato a quando noi ci lamentiamo e parliamo di crisi. Penso a quanto se solo si vedesse con altri occhi, tutto si ridimensionerebbe. Noi non lo sappiamo che cos’è è la fame vera.

E tu Fabio, cosa mi dici della tua esperienza in Mali?

F: Fu la mia prima esperienza, sempre con Rokia Traoré. Fu forte. Il primo rapporto è stato d’incontro musicale e umano con le persone con cui sono andato a suonare. Venivo da mesi di preparazione per studiarmi quel repertorio, per provare a capire come funzionasse da dentro quel tipo di musica che per un occidentale è difficile da interpretare. Sono quindi arrivato che ero un po’ teso. Sia perché stavo affrontando un lavoro meraviglioso e difficile e sia perché tutti mi avevano sconsigliato di andare in Mali. Non sono riuscito a visitare molto, anche se un poco abbiamo girato. Quello che mi torna in mente è proprio il rapporto con le persone. Poi, anche tutto il crash culturale che viviamo. Lì vedi i ragazzini col cellulare in tasca, con le Nike ai piedi, ma che costruiscono un’arpa con le ossa. Il Mali, comunque, è un posto meraviglioso.

Cosa è cambiato, se qualcosa è cambiato, nel tuo modo di pensare la musica una volta tornato qui, avendola suonata lì?

F: Suonare in Mali ha rotto un sacco di pattern mentali che in fatto di musica ho ereditato dall’Occidente. Lì fanno quello che sentono. E quello che sentono può cambiare da una sera all’altra. A osservarle da fuori, molte cose sembrano difficili da suonare. Ma se poi vai a chiedere cosa stanno facendo, il più delle volte non lo sanno nemmeno! Eppure, suonano. Sono istintivi davvero. Ti faccio un esempio: per loro è impensabile il nostro classico strofa-ritornello-strofa, così come anche la quadratura musicale. Portare avanti un brano a multipli di quattro battute, non è fondamentale. Tutti gli schemi vengono rotti da quello che loro veramente sentono in quel momento in cui si suona.

Quindi anche i concerti hanno una tessitura diversa?

F: Mi viene in mente il dopo concerto. Non si discute mai di come sia andato. Se il pubblico è contento, allora lo siamo tutti. Poi, il giorno dopo, alle prove, si tenta di rifare le cose che sono andate più o meno bene. C’è un atteggiamento molto celebrativo. Si tratta della musica che celebra se stessa. Mi porto a casa io è il senso di libertà. Il credere alle proprie percezioni, anche se possono essere folli. Che poi, non è che uno deve fare le cose strane per forza solo perché è stato in Africa, no?

Beh, direi di no. Inoltre il village in questione, nel vostro caso, è l’Italia. Voi siete tutti musicisti italiani e suppongo sia importante, oltre che interessante, il fatto che I Hate My Village sorga in Italia proprio oggi.

A: Infatti. L’Italia, un posto tanto meraviglioso che tanto ci ha dato, ma che tanto mette i bastoni tra le ruote, soprattutto se hai entusiasmo, se sei più energico degli altri. Mi è sempre parso che ci fosse costantemente l’invidia in agguato. Non so, l’Italia ce l’ha questa cosa qui. Senza lamentarci e tornando al nome, ci piaceva l’idea di scherzare sulla nostra patria e chiamare il progetto in quel modo lì.

F: Piuttosto che odiarlo, questo village a un certo punto lo divoriamo. Anche questo potrebbe essere il confine del momento che stiamo vivendo, quello tra odiare e sbranare. Chissà: vedremo!

A questo punto vi chiedo: cosa avete mangiato, che odiate, del vostro village?

A: Urca! ci devo pensare.

F: Eh! Anche questo è un meccanismo. Secondo me, odiare è veramente un po’ come prepararsi a sbranare. È chiaro che c’è un odio da parte nostra per quello che sta accadendo. Non solo in Italia, ma a livello mondiale. Però è anche vero che con quel gioco di parole cerchiamo di immedesimarci, senza esagerare, con chi odia il proprio villaggio, nel senso stretto della propria terra, e scappa. Pure noi magari siamo disposti a farlo. All’estero si mira. Si può fare. Coi Calibro 35 lo stiamo già facendo. Questo paese è minuscolo. Senza voler approfondire troppo, sicuramente abbiamo una sensibilità verso la cultura. Diciamo che si fa quel che si può, come tutti. Penso che, nel bene o nel male, il nostro sia un progetto contemporaneo anche per questa cosa qua.

Del resto, la contemporaneità voi la vivete a 360°. Non è affatto raro vedervi insieme come membri della Propaganda Orchestra, il venerdì, su La7, al fianco di Zoro (Diego Bianchi) in “Propaganda Live”. Fabio è membro fisso. Adriano, tu cosa mi dici rispetto alla tua partecipazione?

A: Beh, è ovvio che quella è comunque un’appartenenza. “Propaganda Live” è un bel programma dove c’è un approfondimento su tematiche importanti, che viene fatto in un modo mai banale e anche un po’ sofisticato, nell’accezione più divertente della cosa. Io sono contento di contribuire. Anche lì con contenuti musicali che possono essere diversi rispetto a quelli che il mondo dei social promuove. È interessante. Sai, mai come oggi ho sentito la necessità della parola alternativo in fatto di musica. A “Propaganda Live” passa della buona musica alternativa. Questo è un bene. È bene che ci sia un posto in cui poter condividere la musica che ci piace, oltre a quella che va e che non è altro che la musica leggera italiana. Musica da cui alla fine proveniamo tutti, eh. Però..!

Appassionarsi ed andare ad esplorare un linguaggio musicale e culturale diverso può essere un atto di contrasto e resistenza contro la deriva culturale di cui siamo oggi testimoni?

A: Io credo che quello che interessa fare a noi attraverso la nostra musica sia far scaturire un interesse. Per me la cosa più bella che può succedere è quando qualcuno, ascoltando “I Hate My Village” pensa: «Caspiterina (non dice proprio così, ndR)!  Ma io non ci avevo mai pensato. Vedi che figata? Senti qui come hanno interpretato questa emozione o come hanno costruito questa cosa?!». Ecco, che qualcuno possa pensare queste cose, è per me la cosa più importante. Perché non facciamo musica per compiacere un pubblico. La facciamo e basta. Quando qualcuno scrive un libro, crea un dipinto, fa musica lo fa senza un per. Almeno, noi facciamo così. Poi, c’è anche un capitalizzare idee e sentimenti, metterli da parte per poi condividerli. Quando una canzone a cui hai lavorato esce ed è libera, la sensazione è meravigliosa. Il senso sta tutto nel sapere che quella cosa che hai fatto può suscitare qualcosa in qualcuno.

F: Sicuramente una presa di posizione c’è. Poi, credo si possa fare anche intrattenimento con la cultura, a maggior ragione in un momento del genere. Ok odiare, ma noi vogliamo anche far ballare la gente, evviva! Poi, bisogna stare attentissimi. Non bisogna darsi troppe arie o responsabilità che nessuno ti chiede. Secondo me bisogna avere l’urgenza di fare le cose, ma quella è l’onestà. Ed è proprio la più spicciola.

Pensando a te, Fabio non posso non citare il fatto che sei tra i fondatori dell’Angelo Mai. Poi, appunto, oltre ad essere membro dei Calibro 35 e degli Afterhours, sei il batterista della Propaganda Orchestra. Nella versatilità di tutti i progetti a cui hai preso e prendi parte, mi viene comunque da pensare che una sorta di filo rosso esista e che viaggi sull’onda di questa responsabilità. Quella che ha qualcuno che lavora con materie prime non comuni, che vengono trasformate in cultura.

F: Questo è bellissimo. Non ne sono così consapevole, immagino. Però è interessante notare che ci può essere una presa di posizione anche sociale e politica. Alla fine, anche cercare di fare bene qualcosa è di per sé un gesto politico. Poi con Diego Bianchi siamo amici, è una banda di matti lì. Lui stesso è un ottimo percussionista, un appassionato di musica e un collezionista di dischi. Ci siamo sempre sostenuti. Nonostante si debbano reggere i ritmi televisivi, “Propaganda Live” è l’unica trasmissione in Italia che dà spazio alla musica. E fa tutto parte di un quadro spontaneo, proprio come si vede in TV.
Poi, le persone si incontrano solo se sono simili e si adattano. E per stare lì, stai da una parte precisa dell’emisfero. Verrebbe da dire quella dei buoni, però non sta a me dirlo. Se no, non ci vai a lavorare lì. Sì, c’è una presa di posizione.

Tornando alla storia di I Hate my Village: in principio ci sono Adriano e Fabio. Non ci si aspetterebbe per forza una voce dalle intro dei singoli estratti, eppure una voce arriva. Ed è quella di Alberto Ferrari (Verdena). Com’è arrivata questa aggiunta?

F: Non ce la siamo imposta. Può sembrare un atteggiamento leggero, ma tutto è una fotografia. È stata un’istantanea. Volevamo uscire all’estero e abbiamo contattato alcune etichette estere che adoravamo. La prima era interessata e ci ha fatto perdere circa 8 mesi. Immagina che noi stiamo sempre ad alta velocità e quindi non volevamo perdere tempo. Abbiamo trovato un’altra etichetta in UK a cui ugualmente piaceva il disco, ma ci chiedeva delle cose cantate. E subito ci è venuto in mente Alberto Ferrari. Gli abbiamo proposto di fare quello che gli andasse sulle strumentali. Il disco era piaciuto, ma al di là del risultato, poi magari c’erano altre mille cose da fare, per cui è finito il discorso pure con quest’altra etichetta. E così, ci siamo ritrovati con questo materiale.

A: Inizialmente, avevamo pensato di coinvolgere un cantante africano. Poi ci siamo detti che era bene coinvolgere le eccellenze di dove stiamo noi. E il primo a venirci in mente è stato Alberto. Era la persona giusta perché Alberto è un artista molto duttile che può fare bene in tantissimi generi musicali diversi. Camminavo da casa mia fino alla saletta qui. Gli ho mandato un messaggio invitandolo a divertirsi con noi. Ha detto semplicemente «». Pensavo ci mandasse un paio di canzoni. Invece ci ha mandato cantato il disco per intero. Una puntualità artistica che mi ha fatto capire che era già tutto perfetto appena l’ho sentito. Poi ha lavorato sui testi e ha deciso di cantare in inglese. Doveva essere istintivo.
Poi, insieme abbiamo deciso di non mettere tutti i brani cantati.
Questo per mantenere la naturalezza con cui è nato il progetto. Metà sono cantate e metà strumentali.

“Tony Hawk of Ghana” e “Acquaragia” sono i due singoli di lancio e sono entrambi cantati. Ascoltandoli di fila, mi è parso che nonostante siano due pezzi diversi, trovino nel ritmo un filo conduttore. Nell’incastro tra chitarra e batteria. Come se uno fosse in positivo, il negativo dell’altro. Negli elementi, nel ritmo degli elementi suonati.

A: Ci hai preso in pieno. Il primo singolo era più orientato verso l’armonia. Magari la chitarra un po’ più protagonista. “Acquaragia” probabilmente è più cinetico, più vorticoso. Gira di più. La batteria è proprio un motore. Qualcosa di tribale ce l’ha.

F: C’è anche “Fare un Fuoco” che è un meraviglioso delirio. Diciamo che la nostra è un’Africa interiore. Tribale, ma nell’attitudine. I testi e non testi di Alberto non coincidono nemmeno coi titoli. È veramente un rituale questo disco. La voce, più che dirti qualcosa, crea un’ambientazione.

Dulcis in fundo, Marco Fasolo (Jennifer Gentle) alla produzione. Tu Adriano, lo scorso 5 Dicembre, nell’intervista condotta da Alessandro Pieravanti a ‘Na Cosetta, lo hai descritto un ingegnere della NASA.

A: Io sono del ’79. Credo che della mia generazione Alberto Ferrari e Marco Fasolo siano i talenti più grandi che l’Italia abbia avuto nella musica. E Marco Fasolo è un gigante. Non solo è un artista completamente libero, ma possiede una competenza fuori dal comune e una sensibilità speciale. È uno che con le macchine ci parla. Uno che ha una lungimiranza di un certo tipo, che in noi ha visto delle cose e ha saputo tirarcele fuori. La sua visione è stata la nostra visione. I suoi sono poteri artistici. Spesso la figura del produttore è una figura molto complicata perché o impone la propria idea o deve essere proprio bravo a entrare nella testa degli interlocutori e realizzare una magia. Marco l’ha fatto con noi. Anche lui mi ha detto che questo album è forse una delle sue migliori cose.

F: Tra l’altro, Marco aveva già lavorato con Adriano e sì, ha definito le regole del gioco. Ci ha fatto registrare su nastro, una cosa nuova, e piuttosto che l’arrangiamento ci ha tirato fuori la performance. Inoltre, è stato in grado di fermarci ogni volta al momento giusto. E questa è una cosa fondamentale nel ruolo di un produttore. È venuto da sé che fosse lui a suonare il basso nel gruppo e nei live. Tutto molto spontaneamente. Senza pretese, ma con grande passione.

Il 2 Febbraio parte il vostro tour. Prima tappa al Monk di Roma. C’è qualcosa che bolle in pentola per cui dovremmo aspettarci sorprese?

F: Noi non vediamo l’ora di suonare! Essendo un debutto, saremo noi. Sarà il live che dovrà essere sorprendente. A me piacerebbe avere una ballerina. Vedremo! A tavolino, non vogliamo fare niente. Dobbiamo pure capire l’energia che si crea con il pubblico. Non deve essere per forza una professionista, sai? Anche una signora meravigliosa che balla e riesce a coinvolgere. Sono tutte quelle cose che devono crearsi da sole però, sennò diventa un circo. Sicuramente questo è uno spettacolo che, nascendo ora, si evolverà coi primi concerti. Cambierà in corsa e magari troverà una sua forma. Anche per questo stiamo facendo delle prove intelligenti, cercando di allargare le strutture, i meccanismi per cui i pezzi possano essere più liberi, senza buttarla in jam.
Vorremmo comunque che sia uno spettacolo divertente e celebrativo, proprio come una festa.

Ultima domanda e vi lascio andare. Rispetto alla musica che fate per conto vostro e al fatto stesso che fate musica: il procedere alla ricerca di suoni e di movimento cos’è che vi restituisce delle vostre origini?

A: Il senso della mia vita. Il mio lavoro è il senso della mia vita. L’esperienza che è diventata questo disco è un percorso che nasce da una parte e ci porta ad oggi con la voglia e la volontà di espressione. C’è anche una maturità che arriva. “I Hate My Village” è un disco in inglese, che non segue nemmeno una moda. Va oltre queste cose e segue l’amore per un tipo di sentimento. La musica è tra i più potenti mezzi espressivi. Io lo vedo in me. Se non avessi avuto la musica, non so cosa avrei dovuto fare per esprimermi. Non so se è rabbia quella che tiro fuori, non lo so. Ma la musica è un veicolo potentissimo e in questo progetto, questo concetto si è espresso davvero in maniera potente.

F: Suonare e conoscere le persone. Io se mi chiedo se a 60 anni vorrò ancora far parte di questo delirio, mi rispondo di sì. Già a 20 anni me lo chiedevo. Io voglio suonare e suonare dal vivo, così come in studio. Ci sono mille modi per stare in studio. Anche veder nascere progetti come questo, che sì, nasce da una jammata, ma non siamo una jammin’ band, è stato importante. Poi, si tratta sempre di conoscere le persone. Siamo sempre lì. Nella mia esperienza di musicista penso a quanto sia stato importante ascoltare e conoscere le persone che mi hanno aperto dei mondi e delle dimensioni musicali che non conoscevo. L’esperienza che ho avuto la fortuna di coltivare e che in un paese come questo è quasi impossibile da realizzare, mi fanno sentire che sono stato fortunato. E poi, tutto è in divenire e meravigliosamente in bilico.

Spero ci risentiremo allora, nel mezzo del cammin del vostro tour! In bocca al lupo. Ci si vede al Monk!

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