Sinan (Dogu Demirkol) è un grande appassionato di letteratura e ha sempre desiderato diventare uno scrittore. Ritornato nel villaggio dove è nato, l’uomo mette cuore e anima nel raccogliere i soldi necessari per pubblicare il proprio libro, “L’albero dei frutti selvatici”, ma i debiti di suo padre Idris (Murat Cemcir) sono lì ad aspettarlo. Il patriarca è un giocatore d’azzardo che ha preso in prestito denaro in tutta la città e la cui dipendenza ha costretto la famiglia nella povertà. Solo confiscandogli carte, contanti e sottraendogli il misero stipendio, sua moglie è riuscita a far sopravvivere la famiglia. Ma Idris possiede un piccolo appezzamento di terra vicino casa. Convintosi che lì ci sia una sorgente fonte d’acqua, l’uomo trascorre ogni fine settimana scavando pozzi, nella speranza di vedere sgorgare una fortuna.
“Ciò che un padre tiene nascosto è rivelato nel figlio”
Il regista torna ai suoi temi più riusciti, rifondendo bisogni personali ed esigenze collettive. Per mettersi in relazione con gli altri, ognuno di noi deve raggiungere la propria anima, comprenderla e assumersi una certa quantità di rischio. Ma se si rischia troppo e si va troppo lontano si può perdere l’orientamento, nonché la propria identità. Ugualmente, se uno teme troppo di smarrirsi, nemmeno si metterà in moto, ritirandosi e sospendendo in partenza la sua crescita e il suo sviluppo. Questo accade soprattutto se un uomo avverte di essere segnato da una contraddizione profonda: sentire di essere diverso, di desiderare cose diverse, ma vivere già nella consapevolezza che ciò che si vuole non si realizzerà mai.
L’essere umano finisce così per essere vittima della sua stessa moralità in “L’albero dei frutti selvatici”. Si muoverà a vuoto, faticando e impegnandosi in progetti che egli stesso ritiene irrealizzabili. Sinan non comprende i danni causati dal suo vivere costantemente e inevitabilmente alienato, così inizia a vacillare tra l’impossibilità di tradurre i propri tormenti nella letteratura e l’incapacità di farne a meno. Sul protagonista pesa un senso di colpa esiziale. Egli sente di essere diverso ma in un modo che non può accettare. Intanto, costretto in una società contraria alla sua natura, difforme dalla sua diversità ma conforme a quella di tutti gli altri. Integrarsi rinunciando a se stesso o accettarsi rinunciando agli altri?
Fedele ad alcune sue precise marche narrative, Nuri Bilge Ceylan costruisce un film agrodolce, senza tempo nel suo discorso artistico ma attaccato alla contemporaneità nella forma e nell’umore.
Nonostante il proprio bisogno di affrancarsi dal passato, Sinan è inevitabilmente trascinato nello stesso destino di suo padre. In una trama ricca di esperienze dolorose, Nury Bilge Ceylan mostra come l’emancipazione totale sia impossibile, non potendo fare a meno di ereditare alcuni tratti dei padri, siano essi debolezze, abitudini o tic. Come ogni scrittore, Sinan vive distante dalle cose. Una distanza dalla realtà necessaria per metterla a fuoco, per tenerla sotto controllo prima di plasmarla in parole, in scritte su carta, edificanti e innocue. Ma quando il lontano diventa vicino e lo scrittore è costretto a vivere quella realtà e non più solo a immaginarla, ecco che le contraddizioni riaffiorano. La sua casa gli sembra meravigliosa quando è lontano da essa, quando è domata e trasformata dalla sua immaginazione. Ma essere davvero in quella casa non gli procura altro che irritazioni e assurdità.
Il villaggio natio di Sinan si trova nei pressi del porto di Çanakkale, una destinazione turistica per la vicinanza a un sito della Grande Guerra e all’antica città di Troia. A un certo punto vediamo il protagonista che arranca davanti all’enorme statua del cavallo di Troia costruita per il film Troy e ora preservata con dovizia dagli abitanti del posto. Sinan sa che non può permettersi di disprezzare gli abitanti locali, perché il suo debutto letterario sarà un’opera su quello stesso luogo, un libro tra autobiografia e accademia sul paesaggio locale intitolato “L’albero dei frutti selvatici”. Lo scrittore sente che la ricerca folle del padre non è tanto diversa dall’attività di uno scrittore: una penna affonda nella mente come la vanga nel terreno, alla ricerca di qualcosa che non vede ma in cui crede strenuamente.
Con “L’albero dei frutti selvatici”, Nuri Bilge Ceylan torna ai suoi temi più riusciti, rifondendo bisogni personali ed esigenze collettive.
Fedele ad alcune sue precise marche narrative, Nuri Bilge Ceylan costruisce un film agrodolce, senza tempo nel suo discorso artistico ma attaccato alla contemporaneità nella forma e nell’umore. Il regista conserva i tempi sospesi e le attese infinite ma preferisce sostituire i toni lirici e seriosi con punte di umorismo inaspettato. Rinunciando a qualche apertura estetica, l’autore seleziona un approccio più realistico che sembra legato allo sfondo degli eventi contemporanei al film, alle rivolte, alle violenze della polizia e all’aumento del fondamentalismo religioso. “Per sopravvivere in Turchia, è necessario adattarsi”, avverte un Imam. Idris non può. Sinan non vuole. La scena finale de “L’albero dei frutti selvatici” risolve il conflitto tra la vecchia e la nuova generazione in due modi, nel bene e nel male, e il pubblico può scegliere quale finale è reale e quale è un sogno.