Intervistando i protagonisti e servendosi del materiale d’archivio, Nanni Moretti si concentra sul ruolo giocato dall’ambasciata italiana a Santiago, spesasi con coraggio nel sottrarre a tortura e morte centinaia di giovani oppositori. La rappresentanza italiana divenne un protettorato salvifico al di fuori del quale centinaia di persone non avrebbero avuto altro destino che sparire anonimamente nell’oceano. Nella sede diplomatica si avviò la procedura per l’espatrio che, concitata e non senza rischi, venne raccontata da Tomaso de Vergottini, ambasciatore italiano in Cile dopo l’ascesa coatta di Pinochet. Il diplomatico italiano rendicontò i fatti di quel periodo con grande onestà intellettuale, accantonando l’ispirazione comunista e garantendo alla prosa un impianto asettico ma veritiero e attendibile. Proprio su questa stessa impostazione il lavoro di Nanni Moretti si anima e seleziona accuratamente le interviste da inserire, i volti e i corpi delle persone e dei militari da lanciare sullo schermo.
“Santiago, Italia”, il film-documentario di Nanni Moretti, punta lucidamente il proprio interesse su un evento cruciale della storia cilena.
Un’imparzialità efficace nel reportage su carta ma assolutamente non auspicabile in un film. Infatti, Nanni Moretti, ci appaga nel desiderio di vedere in immagini uno schieramento chiaro, una presa di posizione che ci dica una cosa e che ce la dica in un certo modo: il suo. “Io non sono imparziale”, sono le parole che il regista dice a un militare cileno che si era convinto a farsi intervistare da lui proprio perché confidava nella sua imparzialità. La gag involontaria e anomala ci si presenta come un fuorionda, come immagini rubate nei retroscena dell’alta gerarchia. Eppure, proprio questo riuscito fuoriprogramma destabilizza il lavoro di Nanni Moretti, la sua premessa incravattata e politically correct. Così, l’ammissione sincera e lapidaria del regista-intervistatore diventa un turning point attorno al quale ripensare tutto l’assemblaggio di materiale visto fino a quel momento. Ma, soprattutto, diventa la tonalità più indovinata per il contenuto di “Santiago, Italia”.
Perché, diciamocelo correttamente, come si può essere imparziali davanti a una milizia che è arrivata a bombardare il palazzo presidenziale pur di destituire con la forza un governo eletto democraticamente? Non c’è attenuante alle conseguenze sanguinose di quel rovesciamento dittatoriale. Nanni Moretti lo sa bene, e sa che la mitigazione ideologica, sofisticata e intellettuale dei suoi documentari precedenti stavolta non funzionerebbe. Il regista salta convintamente al centro dello schieramento, orgoglioso di quello che vuole dire e senza perdersi in giri di parole o strizzate d’occhio. La regia comincia a selezionare precisamente questo o quel documento. Le testimonianze producono punti di vista, non più racconti, e tendono a restituirci il sentimento di quel salvataggio rocambolesco. In seguito alla decisione dell’ambasciatore di accettare chiunque chiedesse aiuto, la sede italiana divenne un campo profughi variegato. Ben presto ai giovani dissidenti si aggiunsero vecchi e bambini, miscelando un’umanità ugualmente vittima della prepotenza armata.
La parzialità di Nanni Moretti diventa la tonalità più indovinata per il contenuto di “Santiago, Italia”.
E proprio da qui che parte la liaison più audace e ripensata di Nanni Moretti. “Santiago, Italia” ha racchiuso nel titolo il parallelismo che lo anima. La Santiago di allora come l’Italia sì, ma quella di oggi. E neppure in questo il regista tergiversa, anzi. Anche se arriva quasi alla fine, dalle parole di uno degli intervistati, tutti della sinistra cilena, sentiamo chiaramente la frase “L’Italia di oggi è peggio del peggior Cile di Pinochet”. Il paese odierno a cui fa riferimento è quello che idolatra Matteo Salvini, la sua politica anti-immigrazionista e si augura eccidi in mare. L’Italia cattiva orgogliosa e sprezzante razzista. Paradossalmente il discorso di Nanni Moretti funziona pur essendo stato formulato e pensato prima della sua reale attuazione, cioè prima delle ultime elezioni politiche. La carica del Ministro degli Interni è diventata un’epifania per il regista, la spiegazione a se stesso del motivo del suo lavoro.
Utilizzando la storia di un paese lontano da noi, il regista parla efficacemente del nostro, del suo passato, di ciò che era e di come è diventato rispetto a chi chiede rifugio. La ricostruzione delle modalità con cui operai, artigiani e giornalisti riescono a rifugiarsi nell’Ambasciata, lavora in parallelo con il racconto delle torture e delle piccole disumanizzazioni brutali di chi era sul punto di morire. I parallelismi si prolungano, si biforcano e giungono fino ai noi di oggi. Il diplomatico Piero De Masi ricorda che non c’era normalità nell’ingresso. Chi cercava rifugio non aveva altro da perdere se non la propria vita; non aveva tempo per chiedere il permesso. Saltava dentro, nell’ambasciata, nell’angolo d’Italia laggiù. Anche l’Italia del ’73 era un posto meraviglioso come il paese di Allende ma che, come dice il traduttore Rodrigo Vergara, “oggi somiglia sempre di più al Cile, nelle sue cose peggiori”.