Qualcuno ricorderà la canzoncina che canta Winnie the Pooh quando, ricoprendosi di fango, finge di essere una nuvoletta nera per rubare il miele alle api. Nel trailer cinese di “Kingdom Hearts III”, attesissimo videogioco Square Enix in uscita il 29 gennaio 2019, l’orsetto è invece oscurato da una macchia bianca. Ebbene sì: è stato censurato. Ma cos’avrà fatto di grave il protagonista dei racconti di A. A. Milne per urtare la sensibilità del governo cinese e subire la damnatio memoriae? Non ha girato uno spot razzista con una ragazza cinese che mangia un cannolo, ma è stato semplicemente una vittima innocente dell’internet.
Qualche tempo fa, vennero diffusi alcuni meme che ritraevano Winnie the Pooh e Tigro accanto a una foto con Xi Jinping e Barack Obama. La presunta somiglianza fra l’orsacchiotto e il presidente della Cina ha fatto infuriare i piani alti, che hanno prontamente cancellato ogni traccia del meme. Da allora, la campagna di censura si è accanita sull’innocuo orsetto, costringendo gli sviluppatori di “Kingdom Hearts III” a oscurarlo nel trailer del videogioco.
La campagna di censura si è accanita sull’innocuo orsetto.
Non è in questa sede che voglio discutere se la reazione del governo cinese sia stata esagerata o meno. Piuttosto, il mio intento è di offrire uno spunto di riflessione sull’autorità di un prodotto artistico. La storia della censura ha radici antichissime. La Bibbia stessa vietava qualsiasi riproduzione di immagini sacre, in quanto oggetti di idolatria. Fu in seguito al secondo concilio di Nicea, convocato nel 787, che venne concesso il culto delle immagini, fondamentali per veicolare l’opera di evangelizzazione.
Ma la tolleranza della Chiesa cattolica non fu assoluta, e nel Medioevo la censura colpì molte rappresentazioni della nudità, ereditate dal paganesimo. Apparvero mutandoni, drappi e vestiti a coprire i corpi nudi in nome della pudicizia. Da allora lo scontro fra liberalismo e censura è andato avanti senza tregua, giungendo fino ai giorni nostri in forme più o meno distinte.
In epoca contemporanea, ogni paese adotta le sue politiche legislative in campo di censura. Come informa Reporter Senza Frontiere, l’Italia è attualmente al 73° posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa. Un risultato imbarazzante, se si considera che Francia, Germania, Regno Unito e Spagna occupano tutte dal 38° posto in su.
Chi come me appartiene alla generazione dei millennials, ricorderà le pesanti censure subite dagli anime giapponesi andati in onda su Italia 1 negli anni ’90. Un caso emblematico è quello di “Sailor Moon”, dove la censura italiana ha letteralmente stravolto la sessualità di alcuni personaggi. Ma i bambini sono davvero così suscettibili, alla vista di personaggi di fantasia coinvolti in una relazione omosessuale?
La censura italiana ha letteralmente stravolto alcuni personaggi degli anime.
Di recente Square Enix, lo sviluppatore della saga di “Kingdom Hearts”, ha ritirato dal mercato belga tre suoi videogiochi. Più che per motivi di censura, i tre videogiochi sono stati ritirati perché contenenti alcune meccaniche simili al gioco d’azzardo. “Mobius Final Fantasy”, “Kingdom Hearts Union χ” e “Dissidia Final Fantasy Opera Omnia” si basano sulle loot box, dei pacchetti acquistabili con valuta reale. Questi pacchetti concedono dei premi scelti casualmente, un po’ come delle bustine di figurine.
La dinamica delle loot box è diffusa in molti videogiochi, soprattutto quelli installabili gratuitamente, che hanno come unica forma di remunerazione gli acquisti in app. La ricerca dei premi più ambiti potrebbe effettivamente portare a una dipendenza dal fattore fortuna. Ma in questa logica, per assurdo, anche i Kinder Sorpresa potrebbero essere considerati pericolosi.
Ad ogni modo, la censura va spesso e volentieri a braccetto col paradosso. In Giappone, ad esempio, sono censurati gli organi genitali nella pornografia. Sì, avete letto bene. Per legge è vietato mostrare il pene o la vagina durante l’atto sessuale. Ovviamente, non sono mancati diversi modi per raggirare la legge, alcuni dei quali non proprio dignitosi. Ma non scenderemo nel dettaglio.
La censura va spesso e volentieri a braccetto col paradosso.
Anche nel cinema la censura è piovuta come una pioggia di cenere e lapilli. Solo due settimane fa ci ha lasciato Bernardo Bertolucci, fra i cineasti italiani più noti a livello mondiale. Anche lui, in più occasioni, è stato vittima della censura. È il caso di “Novecento” e di “Ultimo tango a Parigi”, contenente la celeberrima scena della sodomizzazione. In questo caso, però, il velo della censura è stato strappato, permettendoci di riscoprire due opere di indiscusso valore artistico.
In ultima analisi, vorrei fare una riflessione sul doppiaggio. Non costituisce, forse, una blanda forma di censura del film originale, seppur per garantirne una migliore fruizione? Questo interrogativo potrebbe portare a riflettere sull’essenza stessa della censura, che in piccole dosi può stravolgere completamente l’opera originale di un artista.
Ed è su questo punto che vorrei soffermarmi, in calce. La legge può decidere cosa sia arte e cosa no? La decenza viene davvero prima del messaggio, discutibile o meno, che un artista vuole comunicare? In fondo, non è uno degli scopi dell’arte proprio quello di sollevare la coscienza comune dal suo torpore? In definitiva, Winnie the Pooh meritava davvero di essere censurato in Cina?