Uscendo dalla metafora calcistica, la prima cosa che si può dire con certezza è che ci troviamo di fronte ad un album per chitarra. Non è un disco esclusivamente per le sei corde, ma è lampante quanto spadroneggino in tutte le tracce. Chiaro quando si affronta un disco strumentale che attinge da metal, psycho, rock e prog bisogna mettere in conto che sarà la chitarra la protagonista. Il punto però non è solo la quantità dello strumento, ma la sua qualità, la densità. Non è un termine usato a caso, infatti a volte forse i Vesta potrebbero diluirne il suono più di quanto non facciano in “Odyssey”. Questa più che una critica vuole essere la sottolineatura per un’occasione mancata. Sì perché in Italia non si producono poi così tanti album strumentali, e nel momento in cui succede bisogna farlo con i dovuti accorgimenti.
Il disco non annoia mai, appunto, ma in alcuni passaggi si sente la mancanza di pulizia del suono che pulisca l’orecchio
Tendenzialmente, infatti, il pubblico nostrano non è molto ricettivo al pensiero di quasi un’ora di musica senza parole, e infarcirla di overdrive ne riduce l’appeal. Questo però è ampiamente bilanciato dalla fabbrica di riff che mettono su i Vesta. Il disco non annoia mai, appunto, ma in alcuni passaggi si sente la mancanza di pulizia del suono, qualcosa di clean che pulisca l’orecchio. Come dopo aver mangiato un bell’hamburger ci vorrebbe un sorso di birra a rinfrescare, così una pausa dal suono heavy aiuta la digestione di “Odyssey”. I Vesta si intendono a meraviglia quindi, ma dovrebbero riequilibrare l’impianto sonoro se vogliono passare da commis a chef della buona musica.