Ormai manca meno di una settimana alla finale del Roma Fringe Festival, che si terrà al Teatro Vascello lunedì 28 gennaio. La maggior parte degli spettacoli in contest sono ormai andati in scena. Chi volesse assaggiare ciò che propone la scena del teatro indipendente italiana ha ancora due giorni per farlo. Ieri c’è stata l’ultima replica di “Dopo il diluvio”, “La Regina Coeli” e “Matteo 19, 14”, sul palco B del padiglione Pelanda del Mattatoio.
DOPO IL DILUVIO
Sull’intervento circa la simbologia mitica, di cui l’acqua è l’archetipo tanto della genesi quanto dell’apocalisse, si aggancia il ricordo di una relazione che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. La divisione di un ombrello sotto la pioggia battente è l’occasione d’incontro tra il professore e uno studente. «Solo i coglioni ancora scrivono poesie». Ma si sa, chi disprezza compra. La scoperta dell’omosessualità come possibilità reale è rappresentata e interpretata da Diego Parlanti e Dario Postiglione con una delicatezza che solo la sensibilità sa dare. L’improbabilità della coppia e il rifiuto di vivere il sentimento accettato è imputata al desiderio di normalità del protagonista. Essendo un rimando al passato, non vuole suscitare nel pubblico scoramento, piuttosto un’indicibile tenerezza.
I cambi temporali imposti dalla drammaturgia sono diretti con semplicità ed efficacia dalla regista Ilaria Cerere. Il testo accompagna il pubblico nell’intimità spaventata del professore con sarcasmo, che profuma di amarezza nel presente storico dell’intervento accademico, e che si colora di dolcezza nel passato scenico del ricordo. Per rappresentare queste diverse tonalità, su Diego Parlanti e Dario Postiglione vengono cuciti abiti attoriali coerenti e apprezzabili. “Dopo il diluvio” è un lavoro che non pecca di superbia, e riesce anche a sorprendere sul finale. Non è fastidioso lasciarsi cullare nell’ambiguità del simbolo poetico, che lascia un velo di indeterminatezza sulla sorte dell’amante, e che libera la rassegnazione del professore da ogni rimpianto.
LA REGINA COELI
La metafora cristica ha delle evoluzioni lungo la riflessione di Matteo Svolacchia. Dalla parabola simbolica, il monologo vira sul dolore della madre, trovando un analogo perfetto nell’umanità e divinità della Madonna. Matteo Svolacchia si districa in una moltitudine di emozioni con cui contagia il pubblico. Rabbia, dolore, affetto, rassegnazione, determinazione sono filtrati dal punto di vista del figlio che si figura lo stato d’animo della madre e ce lo rappresenta. La competenza attoriale di Matteo Svolacchia gli consente far aderire il testo al suo corpo. La sua nota caratteristica è nei particolari movimenti delle braccia e delle mani, con cui anima e smorza i toni della narrazione, scandendo un ritmo individuabile e disegnando la contrapposizione inconciliabile tra orizzontale e verticale, terreno e celeste. Scoprire la solitudine straziante di due corpi che vorrebbero ricongiungersi per un’ultima volta è la goccia finale.
MATTEO 19, 14
La tradizione cristiana vorrebbe quest’affermazione consolatoria per ogni genitore che perde il proprio figlio. Non c’è nome per un dolore simile. Persino le lingue si sono rifiutate di incastrarlo in una sequenza di sillabe significanti. «Ci credi in Dio?» è la domanda chiave che Maria pone al suo interlocutore di circostanza in “Matteo 19, 14”, copione firmato da Lorenzo Gioielli e rappresentato dalla EJ Company. In preda alla disperazione più straziante, riecheggia il tarlo di Ivan dei “Fratelli Karamazov”, per cui la sofferenza dei più piccoli è inconciliabile con l’esistenza di un Dio che sia al contempo infinitamente buono e onnipotente. Persino il cinico positivismo di Jesus Emiliano Coltorti si piega di fronte al dolore di Elisabetta Jane Rizzo.
Nonostante l’incipit sottotono, vale la pena percorrere con i due attori il lungo corridoio che porta alla costruzione scenica dello sviluppo. Elisabetta Jane Rizzo ed Jesus Emiliano Coltorti si sganciano dal cliché dell’isterica e del viscido, tirando su con parole naturalisticamente sussurrate e occhi lucidi un ambiente caldo e intimo. Al di là del conforto dato dalla compassione – declinata secondo l’etimo attraente piuttosto che quello respingente – l’insostenibilità della morte dei fanciulli si sporca con i bisogni e le necessità degli adulti che scelgono la loro sorte. L’indigenza è una delle madri adottive dell’a-moralità machiavellica. Quella che Jesus Emiliano Coltorti interpreta con una performance magistrale nella chiusa di “Matteo 19, 14”. L’attore libera (finalmente) col corpo e con la vocalizzazione la natura bestiale della razionalità strategica e spregiudicata, che non lascia posto alla buona determinazione della volontà, a quell’imperativo che pretende solo di essere rispettato nell’intenzione.
Nel teatro si vive sul serio quello che gli altri recitano male nella vita.
Eduardo De Filippo
Lo snodarsi di vite mai vissute su un palcoscenico è un incanto. La rappresentazione di pensieri taciuti e di possibilità che si annidavano nel reale è un’operazione ben lontana dal mero esercizio di stile. Rendere oggetto fuori di sé è l’unico modo possibile per vedere ciò che fluisce nelle viscere insondabili dello spirito. Il fatto che sia servito in pasto a terzi non è un imprevisto.