Operazione rischiosa quella del regista Gabriel Range, che si trova a dirigere un film sulla vita di una figura mitica come quella di David Bowie senza avere i diritti per poter utilizzare le musiche originali del cantante. Questo elemento potrebbe già preoccupare, se non proprio scoraggiare in partenza, la platea di fan del musicista, non poi scomparso da così tanti anni e la cui memoria è fin troppo vivida in tutti gli ascoltatori. Eppure, Gabriel Range si dimostra un regista intelligente e gioca bene le carte che ha a disposizione, dalla scelta del cast alla colonna sonora.
“Stardust” si concentra sul sofferto periodo di transizione che porteranno David Jones a trasformarsi nello scintillante Ziggy Stardust. Un David Bowie agli inizi della sua lunga carriera, che dopo la pubblicazione di “The man who sold the world”; nel 1971 parte un mese per l’America speranzoso di promuovere l’album ad un pubblico che, però, trova i suoi testi criptici, inquietanti, schizofrenici. Il viaggio negli USA è tuttavia un periodo di scoperta e di reset emotivo e mentale per il musicista. Il regista sfrutta per la sua narrazione l’esasperazione dell’equilibrio psichico di David Bowie, centro della successiva trasformazione in Ziggy Stardust. La sofferenza dietro gli inquieti brani di “The man who sold the world”; che il film collega alla paura di cedere alla malattia mentale di cui soffre il fratello Terry e tipica della sua famiglia costringeranno infatti Bowie a dar vita alla maschera dell’alieno dai capelli rossi.
Gabriel Range dirige un film su David Bowie senza avere i diritti per utilizzare le sue canzoni. Ma una nota di merito va alla colonna sonora di Anne Nikitin che non ne fa sentire la mancanza
Considerando questa operazione di fatti e vicende reali comunque romanzati e quindi, sempre con le pinze, “biografiche”, il regista ha di certo il vantaggio di poter costruire e svolgere linearmente un film sul tema di una quasi-malattia mentale. Eppure, trattandosi di David Bowie, va riconosciuto come Gabriel Range riesca a non ridurre a una macchietta la fragilità di David Jones in questo periodo. Ne vien fuori un ritratto rispettoso, complice anche la straordinaria bravura di Johnny Flynn, l’attore dall’arduo compito di non far sfigurare una star così importante.
Ma una nota di merito va soprattutto alla compositrice Anne Nikitin, che inganna il pubblico componendo una colonna sonora ispirandosi alle più note canzoni di David Bowie in modo che gli ascoltatori trovino conforto nel ritrovare, pur senza brani originali, un sound estremamente vicino a questi, tale da farne persino dimenticare la nostalgia. Nella musica c’è anche lo zampino dello stesso Johnny Flynn, anche cantautore. Nel film, David Bowie canta due canzoni intere “alla Bowie”, dei falsi; uno dei quali composto da Flynn, che sono tuttavia molto vicini allo stile del musicista negli anni 70.
Il ritratto di David Bowie in “Stardust” è umile e rispettoso. Seppur non esattamente biografico, evita di ridurre a macchietta la figura del cantante e della sua fragilità
“Stardust” non ha, sia per il tema delicato, sia per l’impossibilità di dare un ritratto musicale completo del cantante, di certo la forza di un semi-biopic che punta sull’esplosività come il recente “Bohemian Rapsody”: è un prodotto completamente diverso, che si potrebbe anche definire una sperimentazione, curiosa ma timida, e di cui si può certamente criticare la volontà di non osare nella ricerca di una messa in scena più originale. Tuttavia tra le righe, o meglio, tra i frames, si riconosce tutta l’umiltà e la deferenza con cui Gabriel Range; regista e, ovviamente, fan, si piega, con sguardo personale, alla figura di David Bowie.