Perché è in effetti di un fatto di cronaca che si parla. 2008, Gloucester, New England. Diciotto ragazze di una scuola superiore sottoscrivono un patto scellerato: restare incinte contemporaneamente, all’insaputa dei giovani fidanzati e delle famiglie. Ma non è tutto. Il piano è quello di creare una comune femminile dove crescere insieme, lungi da ogni influenza paterna, i propri figli. Ma le 18 rivoluzionarie protagoniste non compaiono sulla scena: le 12 figure decollate sono quelle dei loro ignari compagni, di alcuni indignati e non meno disorientati genitori, del preside dell’istituto e di una ginecologa e consulente della stessa scuola. Divisi in due compagini da 6, in mezzo alle quali campeggia il monitor gigantizzato di uno smartphone su cui scorrono, a brani, le conversazioni delle 18 rivoluzionarie.
“Sorry, boys” è il grido di una rivoluzione incruenta. L’opera di Marta Cuscunà chiude il ciclo della trilogia “Resistenze femminili”,
In absentia delle vere protagoniste la vicenda si dirama lungo due binari paralleli: il dialogo fra i fidanzati e il conflitto genitori-preside. Due grumi di linguaggi transgenerazionali le cui affinità valicano i tempi rinsaldandosi nel comune disorientamento di fronte alla libertà politicamente organizzata del corpo femminile. Ma fra cui sussiste anche una frattura storica decisiva, la tecnologia e la mediatizzazione della sessualità, ovvero la pornografia. Ben visualizzate sull’apparato scenografico nel perno-cesura dello schermo digitale di cui sopra. Da un lato il dialogo fra i sei ragazzi sintetizza le paure e la violenza intrinseca che l’immagine pornografica scatena. Un film incessante proiettato dalla tecnologia di massa sugli encefali morbidi di personaggi fluttuanti fra un corpo adulto e un pensiero bambino. Soggetti in grado di condensare nell’arco di poche battute ingenuità e spietatezza. Dall’altro lato, il dialogo genitori-preside scopre l’insufficienza pedagogica di una cultura ancora immatura rispetto alle tematiche femministe.
“Sorry, boys” ci ricorda quanto la cultura di massa dia per scontato che la parità di genere sia un mero fatto di sesso. Che il riscatto libertario passi esclusivamente attraverso l’emancipazione in camera da letto e che, concessa quella, il femminismo sia acqua passata. Roba da parata dell’8 marzo o da memorabilia sessantottina. C’è indubbiamente una dimensione politica nell’opera di Marta Cuscunà, un impegno esplicito. Le maschere sono possibili identità messe al muro, costrette a prendere una posizione in seno alla vicenda ma anche ad una lotta storica, a un conflitto sovratemporale. La costruzione dello spettacolo formula abilmente l’interrogativo: pur essendo le ragazze non presenti fra le maschere della commedia, chi sono i veri assenti? Assenti, in questa rivoluzione del femminile che si autodichiara padrona della vita nel grembo, sono, pur nella loro presenza scenica, le figure rappresentate. Cadaveriche, appunto, poiché inadatte a formulare un pensiero all’altezza del conflitto storico.
“Sorry, boys” di Marta Cuscunà ci ricorda quanto la cultura di massa dia per scontato che la parità di genere sia un mero fatto di sesso.
Ma se fin qui si è parlato di contenuti, “Sorry, boys” è in primis un’operazione di fine artigianato scenico. Marta Cuscunà trasfigura il suo corpo esile in una fisicità titanica e multiforme che dà spessore alla cavità oscura della maschera. Un dispositivo quanto mai classico, che però qui è manovrato, con geniale disinvoltura, in quanto marionetta. Una maschera che cioè non amplifica, ma che parla anch’essa in absentia, con la voce trasposta dalla bocca, sia pure in movimento, all’impianto di amplificazione. Un piccolo inganno che fa il paio con la presenza-assenza del corpo dell’attrice, seminascosto dalla cintola in su. Sarebbe stato facile aggiungere un’opacità qualunque fra i trofei e la sua figura, chiudendo la quinta e configurando un tradizionale impianto da teatro dei burattini. Così, invece, Marta Cuscunà resta sospesa a cavallo dell’ombra, in bilico sull’invisibile, magica come una figura bergmaniana.
Che sul finale smaschera sé stessa dismettendo ogni artificio vocale, avanzando un poco e con grazia commovente verso il proscenio. Così ci risveglia da un sogno, ricordandoci con esplicita presa di posizione come un poetico atto rivoluzionario possa apparire, inatteso e prolifico, ovunque. Onore al merito di una preparazione certosina, che sublima i meccanismi del teatro di narrazione in una ricerca che non si spaura a pescare e innovare simboli arcaici. Ponendo con intelligenza il tema di una lotta necessaria e senza tempo, nell’evocazione della battaglia geniale e delicata di quel golpe gravidico a Gloucester.