Presentato la scorsa primavera nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, la nostra Valeria Golino firma con “Euforia” la sua seconda regia. Il film esamina la relazione tra due fratelli con personalità molto diverse, costretti da una malattia ad avvicinarsi e a conoscersi come non avevano mai fatto. Nonostante due convincenti interpreti principali, Valeria Golino non riesce a rinnovare i meriti del precedente “Miele” (2013). I limiti del film sono imputabile principalmente alla sceneggiatura poco credibile scritta a sei mani con Francesca Marciano e Valia Santella, e a scelte di regia alquanto incerte. La storia è basata su un evento accaduto a un caro amico della regista. A lui è ispirato il personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio. Di questi l’attore ha molto apprezzato la sincerità e l’assenza di ipocrisia nel parlare di cosa significhi trovarsi con il peso di un’enorme responsabilità indesiderata e impossibile da portare a termine.
Euforia: l’inebriante e pericolosa sensazione di felicità e di totale libertà sorprende i subacquei a grande profondità.
Euforia: l’inebriante e pericolosa sensazione di felicità e di totale libertà sorprende i subacquei a grande profondità. Ma a un certo punto bisogna decidersi a riemergere. Una decisione che deve essere presa immediatamente, prima che sia troppo tardi, prima di perdersi per sempre. Matteo (Riccardo Scamarcio) ed Ettore (Valerio Mastandrea), in un certo senso hanno deciso di perdersi. Il primo guarda il mondo dall’alto del suo attico. È un narcisista che dà sfogo a ogni desiderio e si immerge in ogni possibile distrazione fatta di soldi, droga e sesso. Il secondo nasconde fallimenti, insoddisfazioni e mancanza di coraggio dietro una maschera di disillusione e sarcasmo. Le reciproche certezze vacillano quando Matteo scopre che il fratello ha un tumore, ma decide di nasconderglielo. Ettore sceglierà di credergli e di lasciarsi guidare da lui. Questa concessione spingerà Matteo a pensare di poter controllare tutto. E forse di poter sconfiggere tutto.
La contemporaneità sembra voler negare la natura transitoria e razionale della realtà che ci circonda. Una natura mutevole che appartiene anche agli esseri umani. Il mondo attuale ci dà l’illusione di un controllo assoluto della nostra vita, dei nostri corpi e di essere in grado di vincere il tempo, di sfuggire al dolore. D’altra parte, la malattia è il luogo della fragilità. Essa costringe le persone a rinunciare alle apparenze, ad affrontare la sofferenza, ad accettare di essere fragili. Ma la malattia porta paradossalmente all’euforia. Essa ci mette davanti ai limiti della nostra condizione umana. Proprio l’euforia porta i due fratelli ad affrontare le loro ipocrisie e le loro debolezze, col rischio di riconoscersi l’uno nell’altro, di riscoprirsi simili dopotutto. Ettore e Matteo scelgono di non esserne consapevoli a pieno, di non sfruttare completamente il momento euforico e catartico. Iniziano a capirsi ma poi scelgono di salire in superficie.
Il motivo drammatico che porta i due protagonisti di “Euforia” a riavvicinarsi fisicamente non basta perché si riavvicinino anche umanamente.
Il motivo drammatico che porta i due protagonisti a riavvicinarsi fisicamente non basta perché si riavvicinino anche umanamente. La nuova situazione richiede ad entrambi di rivedere la vita condotta fino a quel momento. Matteo pensa di gestire la malattia del fratello come un altro dei suoi affari di lavoro. Come un ennesimo restauro da trattare o un altro affare milionario da concludere, l’uomo porta suo fratello con sé a Roma. Gli offre un posto nel suo lussuoso appartamento, una carta di credito e le migliori cure mediche. Decide per lui qualsiasi cosa. Gli mette a disposizione un autista che lo accompagna in ospedale, gli offre massaggi e viaggi miracolosi. Azioni a metà tra sincero aiuto fraterno e bisogno di dimostrare di poter gestire e risolvere anche la malattia. Il controllo esercitato da Matteo spoglia Ettore di ogni autonomia, denudandolo emotivamente e facendo emergere in lui rancori a lungo taciuti.
Valeria Golino ritrae i due caratteri lavorando marcatamente sulle differenze, dapprima facendoli scontrare e poi, assecondando l’evoluzione narrativa, ponendoli in un confronto dialettico. Mentre Ettore si reca in ospedale per controlli e terapie, Matteo si sottopone a un intervento di chirurgia plastica ai polpacci. È l’esplicita devozione alla vanità e all’edonismo che attentano più volte alla sua salute. La sua casa e la sua stessa vita sono palcoscenici di spensieratezza e successi. Gli amici vanno e vengono dal suo terrazzo, cenano, ballano, dormono sui divani o nel suo letto. In particolare, una bionda dj bipolare, troppo triste per tornarsene a casa da sola, e un ragazzo segretamente innamorato di Matteo, ma che lui vede solo come una dama di compagnia. Di giorno, l’uomo va in scena nel suo completo da imprenditore d’arte specializzato in progetti e restauri prestigiosi, e che ha il Vaticano tra i suoi clienti principali.
Valeria Golino ritrae i due caratteri lavorando marcatamente sulle differenze, prima facendoli scontrare e poi ponendoli in un confronto dialettico.
La sessualità libertina di Matteo ci viene comunicata come emancipatrice e incoraggiante, mentre la normale banalità di suo fratello e la sua mascolinità orgogliosa e fiera risultano repressive e inibitrici. Con lo sguardo costantemente da cane bastonato, Ettore è l’esatto opposto del fratello. Non ha niente del suo carisma, della sua apparente realizzazione, né tantomeno ha i suoi soldi. Ettore continua a vivere nel paese di provincia in cui è nato, insegna scienze alle medie, ha un figlio a cui sembra non essere molto legato ed è in procinto di separarsi dalla moglie (Isabella Ferrari). Mentre Matteo vive spensieratamente una sessualità fatta di incontri occasionali e precari, Ettore è angosciato dal tradimento della moglie. Tant’è che pur essendosi innamorato di una ragazza (Jasmine Trinca), è preda di un dilemma morale che lo induce a non stare con nessuna delle due.
Non è chiaro perché Matteo taccia la malattia del fratello alla madre o a chiunque altro. Tantomeno è chiaro perché non lo dica al diretto interessato, e come ci riesca. Sotto questo aspetto “Euforia” avrebbe potuto traballare meno e rafforzare maggiormente la credibilità della vicenda. Ciononostante, Valeria Golino ci trattiene con sé per due ore, rimediando ai numerosi inciampi di sceneggiatura mediante un’affezione sincera al suo film, che percepiamo costantemente. La regista non lascia mai i suoi personaggi, li scorta da vicino, tifa per il loro avvicinamento. Se li divide in due inquadrature, si affretta a riunirli in quella successiva. Tiene ad entrambi sinceramente ed evita sempre giudizi o prese di posizione a favore dell’uno o dell’altro. L’alternanza di momenti drammatici ad alcune aperture da commedia riesce a ravvivare l’interesse. Su tutte, una dissacrante scena ambientata a Medjugorje in grado di mitigare le numerose scivolate sui cliché omosex.
L’alternanza di momenti drammatici ad alcune aperture da commedia di “Euforia” di Valeria Golino riesce a ravvivare l’interesse.
Le incertezze della scrittura si rinnovano purtroppo nello stile. A parte l’inizio, in cui la splendida fotografia di Gergely Pohárnok fonde corpi e luce, pochi altri momenti denotano un progetto di regia preciso. Piuttosto, l’alternanza tra estetica drammatica e documentaristica dimostra che Valeria Golino non ha ancora trovato la propria cifra formale. Malgrado tutti questi difetti, è giusto conservare quel seme tematico, potenziale e sincero, che sta nel cuore di “Euforia”: le ragioni della menzogna. Una menzogna, che sia una bugia detta o una verità taciuta, rivela un’ambivalenza fondamentale. Colui che nega un dolore all’altro soddisfa il bisogno di negarlo soprattutto a se stesso. Perciò, l’essenza precipua di una bugia è di fatto egoistica, narcisistica e ambigua. Essa può placare le paure, riconciliare la colpa e riparare vecchie fratture. Ma può anche prolungare la sofferenza, peggiorare i legami e fare bene solo a senso unico.